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Cloud in the USA
On the road tra startup e
downtown
Di Lucio Bragagnolo e Stefano Garavaglia
Introduzione
Che in America voglio andar
È ancora tempo del “viaggio in America” alla ricerca degli ultimis-
simi aggiornamenti sulla frontiera della tecnologia? Mariano Cuni-
etti (Responsabile Tecnico), Giuseppe Civitella (Sistemista e Cloud
Architect) e Ivan Botta (Amministratore Delegato), tutti parte del
team di Enter, si sono posti non tanto questa domanda, ma un
quesito più sfidante: in che direzione sta andando l’evoluzione del
cloud? La risposta, che Bob Dylan si era limitato a collocare nel
vento (Blowing in the Wind) e Douglas Adams aveva fissato in 42
nella Guida Galattica per Autostoppisti, è stata dirigersi
verso Openstack. Il viaggio è nato così.
Lungo (e durante) il percorso, la partecipazione a Openstack
Summit 2012 in quel di San Diego è diventata il nucleo centrale di
un’esperienza più articolata e coinvolgente, fatta di persone,
aziende, eventi, situazioni sicuramente diverse dall’epica dell’On the
Road e più adatte invece a tracciare un panorama di evoluzione
tecnologica da fonti diverse dall’usuale.
Invece che feed RSS, gruppi di discussione, mailing list, newsletter e
reti sociali, i nostri manager hanno fatto il punto sui propri progetti,
andando a parlarne là dove i cambiamenti sono velocissimi, a volte
troppo persino per loro, e dove le persone, le idee, le startup as-
sumono valore in modo diverso dal nostro. Non necessariamente
migliore, ma certo indispensabile se si voglia arricchire una esperi-
enza professionale nella tecnologia di rete e di cloud, specialmente
in tema di Infrastructure as a Service, il canonico IaaS degli ad-
detti ai lavori.
Dal resoconto di questo viaggio non emergono solo le ultimissime
dall'Openstack Summit 2012 o alcune esperienze sul cloud in-
frastrutturale, sui cui Enter in questo momento sta concentrando la
propria attenzione. Ma anche una visione più globale di un panor-
ama industriale e professionale che nemmeno la più evoluta delle
reti sociali basterà a fornire.
Il viaggio in America è datato? Queste pagine sono l’occasione per
pensarci su. E per (ri)pensare le nostre idee di cloud,
evidentemente.
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1. Dope’n’Stack. Quando
Openstack è business, passione e
dipendenza
Chiediamo scusa ai ragazzi di Piston Cloud, autori del “cloud an-
them” presentato in anteprima al festival della canzone cloud di San
Diego. Il titolo di questo paragrafo prende un leggero spunto dal
vostro lavoro, ma vi linkiamo.
1.1 Ma i numeri ci interessano?
Mariano
Ci interessano, leggiamo ricerche tutti i giorni. Ce n’è uno che ne
pubblica parecchi. È anche lo stesso che è stato preso in giro per
tutto il Summit.
Eh sì: perché una tra le più note società di ricerche di mercato nel
settore ICT, Gartner, ha pensato bene di dire che Openstack “is not
ready for production”. Tutti quelli che hanno tenuto un keynote
hanno commentato questa “offensiva” dichiarazione: il leit-motiv
delle critiche è stato: “Guardate questa sala. Noi saremmo quelli che
non sono pronti?”. E se due anni fa eravamo in 85, oggi al Summit
siamo 1.500. Boati e tifo da stadio.
A parte gli scherzi, il panorama del cloud computing americano di-
venta interessante se osservato non dal punto di vista del fatturato
ad oggi generato, ma dalla prospettiva degli investimenti. Aziende
come HP, Dell, Cisco, Red Hat e IBM hanno speso, negli ultimi due
o tre anni, fondi sempre più cospicui in termini di marketing e svi-
luppo per sostenere progetti open source. Di fatto hanno messo
soldi nella community. Alcuni partecipano nel board della Open-
stack Foundation, altri forniscono sviluppatori. Ma in generale, il
coinvolgimento è sempre più intenso.
Ora che, da settembre, l’Openstack Foundation è diventata indi-
pendente, si parla di 10 milioni di dollari di investimenti per i
prossimi 3 anni.(Fonte Reuters)
La marcia in più di Openstack deriva dalla sua natura di movimento
open source, molto simile al modello Linux (e infatti molti lo defin-
iscono il “Linux del cloud”); c’è quindi molta partecipazione anche
filosofica ed emotiva al progetto.
Com’è ovvio, poi, nonostante le peculiarità open del software, alcuni
vendor cercano comunque di trascinare la soluzione in un’ “arena
proprietaria”: parlo di aziende come Citrix, Suse, ma anche Nebula e
PistonCC.
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1.2 Ho preso un aereo e da Milano sono atterrato a
San Diego
Mariano
Sono partito con l’idea di andare a vedere il cloud in America. Vi
racconto le mie emozioni e le impressioni.
Primo, non mi aspettavo di trovare questa apertura e una così
grande partecipazione al progetto Openstack: chi collabora è vera-
mente entusiasta.
Poi, un’altra forte sensazione: lavorare sul cloud riassume tutte le
tecnologie, le competenze e il modus operandi di un ISP. I vendor
sono tendenzialmente più abituati a vendere hardware, difficilmente
si metteranno, per vocazione, a fare grosse sperimentazioni ar-
chitetturali sui load balancer, i DNS, le reti a qualunque livello, i
firewall, i server fisici e virtuali: per padroneggiare il cloud comput-
ing devi raggiungere un alto livello di conoscenza su ciascuno dei
livelli interessati (hardware, software, rete): è uno sforzo non indif-
ferente che non può prescindere da un bagaglio di competenze pre-
gresse consolidate.
Giuseppe
Ero convinto che noi italiani fossimo indietro, avevo bisogno di veri-
ficare. Di vederlo coi miei occhi e toccarlo con le mie mani.
Ero certo che in America ne sapessero molto di più, che fossero av-
anti anni luce anche sul versante Openstack. Sono arrivato là per
scoprire cosa succederà nelle prossime release del software, per ca-
pire che direzione prendere nell’implementazione e nello sviluppo
del “Nostro Cloud”. Ma mi sono reso conto che seguire il dibattito su
Twitter, canali IRC e blog della community, per quanto dispendioso
in termini di tempo, permette di tenere il passo anche dall’Italia.
Con questo non dico che il viaggio non sia servito, anzi, aa sottolineo
il fatto che la community degli Openstack-lovers è più attiva e
globale che mai!
Ivan
Le mie aspettative prima della partenza non erano rivolte solo a
Openstack, ma più in generale al cloud made in USA. Sono partito
con l’obiettivo di incontrare le aziende per cercare collaborazioni
utili ad accelerare e impreziosire lo sviluppo dei nostri servizi. Obi-
ettivo centrato.
Volevo anche vedere come innovano oltreoceano le aziende che si
occupano di Software Defined Networking: abbiamo incon-
trato Big Switch e Midokura.
I più “grandi” in questo settore sono quelli di Nicira, azienda acquis-
ita da VMware, ma non li abbiamo conosciuti. Un peccato, ma non
una grande perdita. Secondo me sono fuori dal mercato; chi ragiona
esclusivamente su soluzioni proprietarie dovrà fare i conti con le
richieste sempre più puntuali da parte della domanda.
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1.3 Gli amici che porterò sempre con me. Ma anche
quelli che... “Mi raccomando, non perdiamoci di
vista”
Mariano
Ad un certo punto mi si avvicina un tale che assomiglia a Jeff
Bridges e mi dice “Piacere, Simon”. Era Simon Anderson, CEO
di DreamHost. Nei quattro giorni dell’Openstack Summit abbiamo
assistito ad alcuni loro keynote e abbiamo davvero apprezzato la
direzione tecnologica impressa alla loro infrastruttura. Non ho sen-
tito i suoi discorsi lontani da quelli che facciamo nel quotidiano
anche qui in Italia, parlare con lui mi ha fatto sentire “sul pezzo”.
Un personaggione poi è Boris Renski di Mirantis, un tipo russo
che ha il senso dell’umorismo russo e parla come Borat. Ecco, lui ha
capito come si vendono le soluzioni. Attenzione: non prodotti, ma
soluzioni! È entrato completamente nel progetto Openstack, tanto
da poterlo prendere e ribaltare, montare e smontare in base alle pro-
prie esigenze e a quelle dei suoi clienti. In poco tempo ha trasform-
ato un’azienda IT/web tuttofare in una Openstack Company.
Attualmente ha all’attivo qualcosa come 30 progetti di cloud pub-
blico e privato basati su Openstack (e pare che fatturino anche
molto, tanto da dedicare uno speech al tema “How to Make Money
With Openstack“), tra cui l’implementazione di una piattaforma ob-
ject storage di backend per Cisco Webex.
Non solo ha fatto un’analisi precisissima del mercato Openstack e
del suo valore attuale e futuro, ma ha dato coordinate precise su
quando Openstack costituirà un valido sostituto per VMware in am-
bito Enterprise negli anni a venire. Bellezza.
Poi ci sono i ragazzi di Scalr a cui spetta, pur non avendo alcun ruolo
attivo nel Summit, il primo premio per la presentazione più in-
teressante. Tra tutte le aziende che ho incontrato, sono quelli che
finora si sono spinti più avanti nella comprensione e nell’utilizzo del
cloud come commodity.
Sono poche persone, tutti giovani-giovanissimi, guidati da Sebastian
Stadil, un francese laureato in economia e matematica finanziaria
che i numeri li fa girare davvero bene.
Dal 2008 stanno lavorando su un software in grado di interfacciarsi
con tutte le piattaforme cloud più note e di interagire con l’in-
frastruttura virtuale dei clienti, fornendo servizi di autoscaling, fault
tolerance, configuration management centralizzato, backup, librerie
di template, statistiche. Possono creare intere infrastrutture con bal-
ancer, proxy, cache, front-end, application e database server con po-
chi clic. Le stesse configurazioni vengono dispiegate con Chef sulle
macchine, e non c’è bisogno nemmeno di loggarsi nel sistema per
gestirle. E la cosa sorprendente è che questo software è completa-
mente open source, non lo vendono... lo regalano! Come si
mantengono? Con le consulenze. Impressionante!
Faremo un progetto con loro nei primi mesi del 2013.
Però, ad un certo punto dirai: “non può essere stato tutto bello, no?
Avrai incontrato anche qualcuno che ti ha fatto dire ‘ma fammi il
favore…’?” Sì, l’ho incontrato. CloudScaling, in particolare il
founder e CTO Randy Bias.
Il loro approccio è molto più chiuso. Avranno sicuramente una
soluzione straordinaria perché hanno contratti, tra gli altri, con
Korea Telecom e Internap. Ma la sensazione è che puntino ai pesci
grossi, alle grandi telco. Anche il loro modo di porsi è un pò distante
dall’approccio più accogliente delle altre realtà che abbiamo
incontrato.
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1.4 Il "Fuori Summit". Un aperitivo da raccontare
Mariano
Memorabile la serata all’Hard Rock Cafè di San Diego.
Entro e mi siedo al tavolo con Giuseppe. Due nerd col cocktail in
mano. Da soli, perché non conoscevamo nessuno. Ad un certo punto
si siedono vicino a noi due personaggi: uno lo riconosciamo subito, è
la stella nascente dello sviluppo di Openstack, Eric Windisch.
L’altro, di cui non ricordo il nome, attacca a parlare e dopo un po’ gli
chiedo “ma tu che lavoro fai?”. Lui, con estrema calma, risponde
“ma niente... ho sviluppato la rete di iCloud”. E lo dice così, come se
avesse preparato un piatto di patatine fritte.
Agli aperitivi e alle feste dell’Openstack Summit mi sono anche fatto
un’idea degli operatori cloud e degli startupper tecnologici americ-
ani: tutti ragazzini, davvero molto molto giovani. Giovanissimi e
mediamente alcolizzati.
1.5 Ma guarda un po’ questi scappati di casa
Mariano
Il titolo serio poteva essere “Italiani in America”. Sembra incred-
ibile, ma lungo il nostro viaggio tempestato di incontri con dei nerd
pazzeschi abbiamo incrociato anche qualche italiano. La maggior
parte erano turisti da shopping del sabato pomeriggio. Gli altri, po-
chi (pochissimi) erano lì per il Summit o perché lavorano nel mer-
cato cloud.
A San Diego tre, due italiani di Cloudbase e uno sviluppatore che la-
vora per Dream Host in Italia ma è in attesa della carta verde per
trasferirsi in America. In Google abbiamo conosciuto un italiano di
Caserta, anche lui scappato dall’Italia, che ci ha guidati in una sorta
di tour aziendale.
Poi abbiamo incontrato Stefano Maffulli, su Twitter @smaffulli. Si
dice che l’inferno è quel posto in cui c’è la polizia tedesca, la cucina
inglese, la musica francese e il tutto è gestito da un italiano. E Ste-
fano Maffulli è il community manager di Openstack!
1.6 In volo verso San Francisco
Mariano
La settimana a San Diego è volata, l’Openstack Summit mi ha dato
parecchie soddisfazioni e conferme. Mi sono reso conto che abbiamo
capito, che con il nostro cloud siamo sulla strada giusta. Siamo at-
terrati in America con un’idea e ce la siamo portata a casa quasi così
com’era, abbiamo capito che è sostenibile.
Parlando con vari colleghi al Summit ci siamo stupiti piacevomente
del fatto che al momento non ci sono risposte certe. Tanti socratici,
insomma, che sanno di non sapere. Openstack è un continuo “lavoro
in corso”, forse perché le problematiche (oltre che le opportunità)
sollevate dal cloud sono sempre nuove. Chi decide di utilizzarlo ha
esigenze sempre diverse, per le quali occorre trovare (-->sviluppare)
una soluzione.
Di fronte ad un dubbio che abbiamo voluto condividere con i nostri
interlocutori, l’approccio non è mai stato “mi aiuti a fare questa
cosa?”. Eravamo consapevoli che ci avrebbero risposto “che diavolo
vuoi? Anch’io sto provando a fare la stessa cosa. Easy man, abbiamo
lo stesso problema”.
Si collabora: con Openstack ti senti meno solo e, allo stesso tempo,
hai la sensazione di essere un apripista. Sai che dall’altra parte del
mondo, dove sono notoriamente tre anni avanti, stanno facendo le
stesse cose che fai tu in Italia.
Questa consapevolezza è rassicurante e allo stesso tempo da brivido.
È come entrare in cabina di pilotaggio e scoprire che non c’è
nessuno, o che ci sono tante persone che cercano di trarti in salvo
ma che non hanno ancora capito bene come fare.
L’approccio di un vendor invece è totalmente diverso, con loro non
puoi nemmeno entrare in cabina quindi non ti poni il problema. Sai
che qualcuno penserà al posto tuo. E speriamo che pensi bene.
Rileggo e mi accorgo che ho dato un’immagine tutta “rose e fiori”.
Non è affatto così, questa parte di viaggio mi ha riservato anche
delle delusioni profonde. La smoke free policy, ad esempio: per fu-
mare devi stare almeno dieci metri lontano dagli ingressi di qualsi-
asi edificio. Cose da pazzi! E poi, il ristorante afghano di fronte al
nostro hotel: impraticabile! Direi che negli Stati Uniti si mangia
veramente male. In certi ristoranti con il conto ti portano anche la
prognosi.
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2. What the f**k is Openstack?
Parliamo del software open source che ha rivoluzionato le fonda-
menta del cloud infrastrutturale. Openstack è uno strumento
che permette di realizzare e utilizzare servizi cloud IaaS on demand,
elastici, con accessibilità illimitata e possibilità di modificare le
risorse di calcolo in qualsiasi momento. Serve anche per rendere
possibili, in modalità self-provisioned, quei servizi strutturali che
sono da sempre patrimonio di competenze degli ISP.
2.1 Cosa cambia per chi sceglie Openstack?
Giuseppe
Anch’io ho seguito su twitter il dibattito generato delle dichiarazioni
di Gartner. Il concetto era abbastanza semplice: loro dicono “Sì,
Openstack è carino, ma non è un prodotto, non è una cosa fatta e fi-
nita”. Forse è questa la differenza da interpretare: Openstack non
sarà mai un prodotto. È una Fabbrica del Duomo, è in continua
evoluzione, è un software per il cloud su cui mettono mano migliaia
di sviluppatori in tutto il mondo arricchendone quotidianamente le
potenzialità e rendendolo più stabile. Tutto in costante condivisione
con gli altri utilizzatori, tutto free. Openstack è filosoficamente
legato al concetto di cloud: cloud computing significa anche e
soprattutto condivisione delle risorse.
Le aziende che lavorano con Openstack sono sia quelle che vendono
cloud pubblico (Rackspace e Cloud Scaling ad esempio) che quelle
che scelgono di offrire soluzioni di cloud privato (ad esempio Nebula
e Piston CC). Spesso chi usa Openstack è impegnato in prima per-
sona nello sviluppo.
Usare soluzioni preconfezionate, standardizzate, proprietarie -
usare quindi dei “prodotti” intesi come li intende Gartner - attiva un
processo abbastanza vincolante, seppur rassicurante, secondo me
destinato a (far) morire: io imposto per la mia azienda una soluzione
che si basa sulle specifiche del produttore di software. Quando
questo produttore cambia le specifiche o rilascia l’aggiornamento,
allora anch’io devo aggiornare i miei sistemi. Se c’è qualcosa che non
va, devo girare intorno al problema e aspettare (sperare) che chi mi
fornisce il software aggiorni al più presto e “pensi anche a me”.
Con le soluzioni open non è così: il cloud di Rackspace non aspetta
la prossima release di Openstack per aggiornarsi, è in continuo ag-
giornamento. Niente più attese, lavoro direttamente io sul codice.
Faccio le modifiche, poi ci sono i test e, se tutto va a buon fine, si va
in produzione. Certamente, questo comporta un grande impegno.
Ci tengo a spiegare più in concreto questo concetto: a San Diego ab-
biamo incontrato un italiano di DreamHost, Rosario: ci ha spiegato
come la sua azienda ha modificato il sistema di billing per integrarsi
con Openstack. Se avessero ragionato in “vecchio stile”, avrebbero
dovuto adattare ogni modifica del software ai loro sistemi perdendo
un sacco di tempo. Hanno scelto, invece, di far parte degli svilupp-
atori che si occupano del billing su Openstack, assicurandosi in
questo modo che il software sia sempre compliant con i loro
sistemi.
Mariano
Giuseppe ha fatto degli esempi che riassumono un concetto più am-
pio.
Siccome io azienda, io sviluppatore, dovrò comunque mettere mano
ai miei sistemi per costruire un pezzo che quasi sicuramente manch-
erà e che a qualcuno quasi sicuramente servirà, decido di svilup-
pare direttamente in condivisione con gli utilizzatori di
Openstack. Ci sono 6700 developer che collaborano al progetto:
se devi stare al gioco... allora gioca.
E fallo con tutta tranquillità, Openstack concettualmente è come
Linux. Quindi è open e resterà tale.
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2.2 Liberiamo le reti. Cresce l’interesse per le SDN
Ivan
Le SDN (Software Defined Networks) sono una vera rivoluzione. Il
cloud non è nulla senza la rete e, in questo momento, la rete non è
libera. Per disegnare un’architettura di rete occorre scegliere a priori
una tecnologia di un hardware vendor, concentrarsi sulla logica dis-
tributiva che il vendor stesso consente e, solo successivamente,
sull'aspetto funzionale della rete verso gli utenti. Questo avviene
perché, fino ad ora, abbiamo mentalmente delegato ai costruttori di
apparati di routing e switching l'intelligenza che possiamo impie-
gare nel disegnare logicamente e funzionalmente le reti.
Adesso è possibile disintermediare questo sistema che si poggia
su hardware con software embeddato proprietario.
Esistono già in commmercio, a costi che iniziano ad essere conten-
uti, apparati hardware in grado di calcolare routing e switching
(quasi) infiniti a prescindere dal sistema operativo installato. Gli ap-
parati hardware nei POP e nei NOC non avranno vincoli di licenza,
quindi prevarrà l'intelligenza nel disegno della rete funzionale e lo-
gica rispetto a quella fisica che la sostiene nel trasporto e nel
calcolo.
2.3 Openstack sembra una fissazione, quasi una
malattia. Garantiamo che esiste altro
Mariano
Alternative ad Openstack ce ne sono. Joyent, ad esempio, è un bel
prodotto creato da gente ex SUN e quindi Oracle. Chi lavora in Joy-
ent ripete sempre come aneddoto che è come se un pullman di in-
gegneri della Sun si fosse rovesciato in mezzo all’autostrada e
fossero arrivate macchine da tutte le aziende a raccogliere i feriti per
portarseli via.
Un gruppo di questi “incidentati”, guidati dal geniale Bryan Cantrill,
ha messo in piedi una suite software che fa virtualizzazione e or-
chestrazione con delle feature che altri sistemi basati su Linux non
hanno nativamente. Parlo di un file system a 128 bit (ZFS), di statsd
e di un modello di virtualizzazione del sistema operativo scritto da
veri ingegneri del software.
Se Joyent avesse rilasciato alla community il codice per tempo
avrebbe superato Openstack. Invece hanno ripetuto lo stesso errore
commesso in passato con Open Solaris. Il sistema operativo è dav-
vero potente e ben fatto, ma è stato reso open con cinque anni di ri-
tardo. In cinque anni succedono molte cose, infatti il loro lavoro, per
quanto perfetto, non ha avuto il successo che meritava. Lo avessero
condiviso prima, forse Linux non sarebbe diventato il fenomeno che
è diventato.
Giuseppe
Ci sembra interessante segnalare anche Cloudstack, il progetto
Cloud Citrix-based, scaturito dall’incubatore di Apache. Cos’ha dalla
sua? Il fatto che offre prodotti di gestione già pronti da amminis-
trare e, soprattutto, la compatibilità con le API di Amazon. D’altro
canto, la user base non è ancora estesissima e ci sembra che la vis-
ione strategica sia ancora un po’ acerba. Non vogliamo entrare nella
guerra dei numeri: lo terremo d’occhio con curiosità e ci sembra de-
gno di nota perché, come Openstack, è un progetto Open.
E poi la grande madre: VMware. Lo/la utilizziamo, lo/la ven-
diamo, ma...
Ne apprezziamo alcune caratteristiche: è leader di mercato, ha avuto
un’evoluzione veloce che ha consentito all’azienda di sfruttare appi-
eno il vantaggio della prima mossa, è un prodotto solido molto ad-
atto ai contesti enterprise. In questo momento, a mio avviso, è in
fase di consolidamento: non vedo grosse rivoluzioni in pipeline, ma
piuttosto l’aggiunta di nuovi servizi a contorno.
D’altra parte ha ancora un punto debole (oltre alle problematiche
commerciali relative al licensing e alla rivendibilità, che esulano da
una valutazione tecnica del prodotto, ma affliggono noi provider): la
scarsa automazione delle configurazioni lato rete (VLAN e cose
simili). In questo senso, l’acquisizione di Nicira potrebbe assicurare
una buona spinta propulsiva in avanti.
In tutto questo excursus, un po' per vocazione, abbiamo preso in
considerazione l’ambito di utilizzo del cloud che al momento ci vede
più coinvolti, ossia l’Infrastructure as a Service.
Altre valutazioni andrebbero fatte per il SaaS, che sta facendo regis-
trare elevati tassi di sviluppo, e il PaaS, che sta viaggiando ab-
bastanza bene a giudicare dai 30 piani di grattacielo di Salesforce.
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2.4 Amazon contro il resto del mondo?
Mariano
Sì, decisamente. Sono loro che dettano legge nel mercato IaaS pub-
blico, sono loro che hanno stabilito lo standard delle API e sono loro
ad aver definito il modo di intendere l’infrastruttura cloud.
Sono bravissimi. Peccato che il loro mercato possa solo scendere; al
momento hanno la fetta più grossa della torta, ma il settore cloud è
in continua espansione, nascono quotidianamente nuovi player che
andranno ad insediare il loro strapotere.
Qualcuno dice che anche Amazon ha momenti di down (5 in un an-
no e mezzo, l’ultimo lunedì 22 ottobre, memorabile quello che ha
trascinato giù Instagram, Netflix e Pinterest).
A loro discolpa, hanno un’infrastruttura enorme e non è pensabile
che facciano sempre backup di tutto, vorrebbe dire fare la copia del
cloud.
Sono i clienti che non sempre sanno come sfruttare al meglio il po-
tenziale che Amazon mette a disposizione e che non utilizzano cor-
rettamente le Availability Zones. Si aspettano che, al verificarsi di
problemi, ci pensi sempre “mamma hosting provider” a sistemare le
cose. È una situazione del tipo “mi si è rotto il gioco, ci hai pensato
tu al backup dei miei dati e delle mie app?”. ”No, non hai firmato il
contratto e quindi io non ho predisposto nessun backup”.
Ci sentiamo di dire che molti dei problemi che riguardano Amazon
derivano da un utilizzo dei servizi, da parte della domanda, non
ancora del tutto maturo.
Questo ci fa riflettere su una cosa. Distribuzione su vari datacenter,
ridondanza e programmi/funzionalità di disaster recovery non van-
no dati per scontati e spesso distinguono i servizi cloud reali da
quelli soltanto proclamati come tali. Ma dobbiamo tutti fare ancora
tanta evangelizzazione su come le applicazioni per il cloud si
utilizzano, per coglierne al meglio tutte le opportunità, tra cui la
sicurezza.
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3. E il Boss cantò a squarciagola...
Cloud in the USA!
Mariano
Ho la sensazione che in America il concetto di cloud sia conosciuto,
assodato e utilizzato. Almeno negli ambienti che abbiamo fre-
quentato durante il viaggio. A differenza di quanto succede in Italia,
sembra che là, quando si nomina il cloud, si sappia di cosa si sta
parlando. Da noi se ne parla, è l’hype del momento, ma per ora,
nella sostanza, i passi da fare dalla virtualizzazione al cloud comput-
ing sono ancora molti.
In USA il cloud è acquisito, c’è addirittura una logica “usa e getta”.
Prendiamo ad esempio le startup: chi si butta in nuove idee ha
bisogno di risorse pronte “presto e bene”, non ha interesse verso le
infrastrutture, vuole i servizi. Vuole pagare solo quello che consuma.
E quando non consuma smette di pagare, arrivederci e grazie. In
casi come questi, il cloud computing è una risorsa oggettiva,
utilizzabile e concreta, è una risposta ad un bisogno.
In Italia questo bisogno si deve ancora manifestare su larga scala.
Far sopravvivere le aziende viene prima della reale utilità o usabilità
del prodotto che vendono.
3.1 Ma il cloud in America si vende?
Giuseppe
Pensavo che gli americani fossero più consapevoli di come vendere
il cloud. Invece, mentre colossi come Rackspace e DreamHost sono
già avviati, sembra che gli intermedi non sappiano bene dove
sbattere la testa. O meglio, evitiamo di essere così drastici: diciamo
che i piccoli, medio-piccoli e gli startupper stanno perfezionando
idee e progetti, stanno innovando e istruendo i futuri clienti di ser-
vizi cloud.
Una sera sono andato con Mariano ad una festa di Mirantis
(l’azienda del russo fighissimo che parla come Borat) e lì abbiamo
conosciuto i ragazzi di Swiftstack. Sapendo che li avremmo incon-
trati a San Francisco qualche giorno dopo, anche se in veste più uffi-
ciale, salutandoli gli abbiamo detto “dai allora ci vediamo poi nella
vostra sede”; e il loro CEO, Joe Arnold, ci ha detto “see you soon,
and please be aware that we’re gonna suck your brain”.
Praticamente ci ha detto “voi venite a cercare di capire cosa ven-
diamo noi? Ma anche noi cercheremo di capire cosa fate voi”.
Ivan
D’altra parte, le proiezioni di mercato sono abbastanza coerenti (a
meno che i vari Istituti di Ricerca non si copino l’uno con
l’altro): Forrester prevedeva l’anno scorso che nel 2020 il mercato
cloud sarebbe arrivato a 241 billion $; le più recenti stime di Market
Research Media sono ancora più ottimistiche: $270 billion entro il
2020. Guardando poi ai tassi di crescita, Deloitte preannunciava un
CAGR del 24% tra il 2008 e il 2013; The 451 Group conferma il dato
anche se calcolato tra il 2010 e il 2015; Gartner rileva un 19,6% per il
2012.
Barriere o no, tornando alla torta, è destinata a lievitare.
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3.2 Siamo sicuri che il cloud privato sia la
soluzione?
Ivan
È una questione di buon senso. Se non sei Google o un’azienda
simile, a cosa ti serve il cloud privato?
Il cloud computing si fonda sulle asimmetrie di consumo. Fac-
ciamo un esempio: l’azienda X quante ore al giorno sfrutta i suoi
server? 8? 10? Perfetto. Se l’azienda X non sceglie il cloud, paga e
consuma per 24 ore.
E se all’azienda X (dove X non sta per Google) proponessero di fare
al suo interno un private cloud? Cambierebbe poco rispetto ad un
scelta infrastrutturale tradizionale, essendo di dimensioni piccole o
medie: non andrebbero ad ottimizzare lo sfruttamento delle risorse
di calcolo e della capacità di storage, perché continuerebbero ad al-
ternare momenti di attività a tempi morti.
Ne sono convinto. Il cloud computing si fonda sulle asimmetrie di
consumo: se la tua azienda non le ha, le strutture non si consolidano
e quindi non si realizzano né vera efficienza né risparmio.
Su cosa ti avvantaggia il vero cloud? Se scegli un sistema condiviso
(cloud pubblico) pagherai un po’ di più il tuo costo/consumo, ma
lo farai solo per le ore o addirittura i minuti di reale utilizzo e il con-
sumo dei momenti di “fermo” non costerà niente. Il vero cloud con-
sente di spegnere le macchine in qualsiasi momento e di smettere di
pagare. In una cloud pubblica, se la tua macchina è spenta per
inutilizzo (ad esempio di notte), saranno altri a sfruttarne le risorse
di calcolo e a pagare la propria parte.
3.3 Servizi cloud e mobile temo che non siano
garantiti a tutti i cittadini
Ivan
Mi ha colpito la diversa distribuzione dei servizi tra le grosse città e
il resto.
Ad esempio a San Francisco hanno tutti l’iPhone. C’è tanto WiFi,
reti free ovunque anche se la connettività è di pessima qualità
soprattutto nei locali pubblici. Il 4G è arrivato e navighi velo-
cemente, ma appena metti il naso fuori dai grandi centri non c’è più
niente. Una domenica ho fatto un giro con Mariano: partendo dalla
Silicon Valley siamo passati da Saratoga, nella parte interna, e poi
Santa Cruz fino a San Francisco costeggiando l’oceano. Niente, il
cellulare non andava mai, non prendeva. Se buchi una gomma in
quella zona devi aspettare che passi qualcuno, altrimenti sei fregato.
Forse anche in America, quando si tratta di reti mobili, ci sono un
po' di problemi di digital divide.
4. Hackero ergo sum
Ivan
San Francisco è la patria della contestazione. E la rivoluzione più
importante che ho visto non è tecnologica: si respira un’aria di cam-
biamento, c’è voglia di stravolgere i sistemi. Il cloud computing per
me non è solo un fattore tecnologico, è un fenomeno sociale che
fa parte del processo di democratizzazione e disintermediazione dei
sistemi attuali.
Lì tutti parlano di hackerare quello che già esiste, di introdursi nelle
abitudini della gente e creare una rottura che porti cambiamento.
Perché Apple con iTunes ha rivoluzionato la musica? Perché ha
hackerato un apparato esistente, si è inserita nel processo consolid-
ato di download di file audio via web. Si è insinuata nelle abitudini
degli utenti e ha reso la loro esperienza un processo legale e diffuso.
Questa, prima di tutto, è una rivoluzione sociale che utilizza la
tecnologia, ma che NON nasce da essa.
Parto da questa osservazione per agganciarmi alla tematica delle
Startup.
Girando negli spazi di coworking e nelle aziende a San Francisco ho
notato che c’è molta attenzione degli investitori verso idee folli che
cercano di disintermediare qualcosa.
Mariano e Giuseppe hanno citato le dichiarazioni di Gartner. Se-
condo me non è vero che Openstack non è pronto per il mercato, an-
zi, io credo che questo software open sia un altro esempio di demo-
cratizzazione: dei professionisti hanno deciso di non utilizzare piat-
taforme proprietarie e di partecipare allo sviluppo di qualcosa di
nuovo.
30/51
4.1 Una strategia vincente: il fallimento
Ivan
Partiamo da un paradosso: in Italia se fai i soldi vivi nel lusso, se
non li fai vivi normalmente (o almeno ci provi). In America devi
guadagnare per accedere all’assistenza sanitaria e questo crea “os-
sessione” per il vil (ma tanto utile) danaro. Dall’altra parte, però, per
le persone che coltivano idee e provano a realizzarle non è mai parti-
colarmente difficile trovare finanziamenti. Ma soprattutto non c’è il
minimo problema se poi il progetto si rivela un fallimento: tanto il
sistema compensa.
A San Francisco ci siamo resi conto che, a differenza di quanto ac-
cade qui da noi, è abitudine lavorare su una sola idea, non su un
ventaglio di progetti. Proprio per questo motivo gli startupper ri-
escono a dedicarsi intensamente ad una cosa sola e a pensare in
grande.
Come campano quindi gli startupper e perché non hanno paura di
fallire?
Il meccanismo delle startup in America si articola in fasi. Gli star-
tupper, in genere, sono amici o colleghi che decidono di investire il
loro tempo in un’idea folle. Se hanno già un contratto con qualcuno,
si licenziano e usano i loro soldi per avviare le prime fasi del pro-
getto.
Trovano poi un primo finanziatore che li accompagna alla fase di
“Exit”. Quel finanziatore riprende sicuramente i soldi investiti e ri-
esce anche a fare margine. Una volta presentato il prototipo della
startup su cui ha investito, arriva il venture capitalist che gli per-
mette di commercializzare il prodotto, oppure arriva il Google di
turno che investe sulle persone e le compra, addirittura
risarciscendo i finanziatori iniziali con un extra-bonus del 15-20%
sull’investimento iniziale.
La fortuna dei giovani americani sta tutta in questi concetti: lì non si
pensa solo ai soldi, le idee e le persone hanno un valore enorme.
Google l’anno scorso ha “comprato” centinaia di startupper, non
tanto per lanciare i loro prodotti, ma perché li ha ritenuti in qualche
modo geniali e li ha voluti integrare nell’azienda.
In Italia nessuno ragiona così. Se uno startupper americano fallisce
una volta, trova sicuramente i soldi per dare vita anche alle idee
successive.
Per qualche giorno abbiamo viaggiato con Matteo Roversi, CEO di
Nevergiveapp, una startup che ospitiamo al Covo, il nostro spazio
di coworking. Lui e il suo team hanno sottoscritto l’application form
per Y Combinator, azienda che prende le startup e le porta alla fase
prototipale, concedendo finanziamenti di almeno 20mila dollari.
Nei moduli compilati da Matteo c’era una domanda in cui gli chie-
devano quante volte fosse fallito. Lui ha scritto zero e per questo ha
incontrato qualche problema in più: in USA non aver collezionato
nemmeno un fallimento è sinonimo di poca esperienza.
32/51
4.2 Come pensa lo startupper: le cose per cui
ringraziare nel 2012
Derek Andersen ha lavorato in Electronic Arts e ha fond-
ato Commonred e poi Startup Grind, una catena di eventi in 35 città
di 15 Stati con l’obiettivo di formare, ispirare e collegare gli
imprenditori.
In occasione del Thanksgiving Day 2012 (la festa del Ringrazia-
mento), Andersen ha scritto su TechCrunch un post dedicato alle 42
cose per cui gli imprenditori possono ringraziare. È un documento
sintetico eppure singolarmente rappresentativo della cultura della
startup e degli startupper, che negli anni si è sviluppata negli Stati
Uniti e specialmente nelle aree oramai iconiche da questo punto di
vista, come la Silicon Valley.
Per la nostra mentalità vi sono eccessi ed esagerazioni, così come in-
tuizioni e indicazioni preziose. Ne presentiamo qui una versione
italiana depurata da riferimenti locali poco indicativi, comunque
presenti nel testo originale.
1) Continua a piacermi una sessione di lavoro dopo l’una di notte.
2) Il mio partner sostiene anche il sogno nonostante i rischi e l’in-
certezza.
3) Silicon Valley non riesce a stare dentro una fiction per la televi-
sione.
5) Finanziatori come Steve Blank, Naval Ravikant, Mark
Suster, Fred Wilson, Paul Graham e Brad Feld
6) Prodotti come Basecamp, Stripe, Github, SendGrid, Google Apps,
MailChimp, Square, Eventbrite, MacBook, Microsoft Office e Gmail,
che tengono in funzione le nostre attività.
7) Non avere un impiego dalle nove alle cinque orario continuato.
8) Assegni da incassare.
9) Amici che tirano un osso alla tua startup quando ne hai un
bisogno disperato.
10) Posso dirigere un'azienda globale dal mio portatile.
11) Genitori orgogliosi della startup del loro figlio.
14) Cofondatori che ti spingono a dare il meglio con il loro esempio.
15) API (interfacce per la programmazione).
16) Libertà di creare e curare un lavoro che ho scelto.
18) Design profondo.
19) Libri per imprenditori come Startup Communities, The Startup
Owner’s Manual, Founders at Work e Steve Jobs.
20) Fondatori di startup di tutto il mondo al lavoro incessante per
costruire le loro comunità locali.
22) Startup misurate non per il denaro che attirano ma per la
trazione che suscitano.
23) Ingegneri intelligenti.
24) Uomini di azienda che lavorano come ingegneri.
25) Investitori e azionisti capaci di capire che nessuno ha sempre ra-
gione.
27) Persone che danno senza aspettative o strascichi.
28) Messaggi di ringraziamento dei tuoi clienti.
29) Nessuna accusa di avere gonfiato la crescita della tua azienda.
30) Risultati sopra ogni aspettativa.
31) Clienti disposti a pagare per il tuo prodotto.
32) Risorse che aiutano gli imprenditori come Kauffman Founda-
tion, AngelList, Stanford, Startup School, SFciti e Startup Weekend.
33) Bimbi che ti abbracciano anche se esci presto la mattina e torni
tardi la sera.
34) Lo stato mentale della Silicon Valley.
35) Il tizio che vale cento volte l’altro tizio prende in mano il conto
senza pause imbarazzanti.
36) Prodotti su misura per il mercato.
37) Milionari alla guida di vecchie auto da buttare.
39) Clienti che facilitano la vita invece di complicarla.
40) Fondatori che dormono in macchina o negli uffici di America
On Line per farcela.
41) Fondatori che non si arrendono mai.
42) La mia startup è viva per battagliare un altro giorno, settimana,
mese. Che altro potrei chiedere?
34/51
4.3 Invitante, tagliente... splendido splendente
Ivan
Consigli per gli startupper non US: a volte basta dare una lucidata
alla propria immagine per sembrare un gigante. È pazzesca la per-
cezione che le aziende americane riescono ad imprimere nel nostro
immaginario. Funziona esattamente come nei telefilm: tu li guardi e
riesci a farti un’idea molto forte di quello che è l’America. Poi ci vai e
ti rendi conto che è un po’ diversa da quello che pensavi.
Le imprese americane sono bravissime a comunicare il proprio
valore reale o percepito: sembrano enormi, dei giganti. Poi vai là e ti
rendi conto che sono quattro gatti. Intelligenti, bravi e simpatici, ma
comunque quattro gatti. Big Switch, ad esempio. Ci aspettavamo
una sede pazzesca e centinaia di dipendenti, ma erano in 30 o 40
ficcati in una stanza da 10 persone.
La stessa Apple è stata per anni un’azienda normale come ce ne
sono migliaia in Brianza. Solo che sono riusciti a riflettere un’imma-
gine tale da diventare veramente impressionanti col passare del
tempo.
Immaginiamoci un signor “Grappeggia”, proprietario di un mobilifi-
cio della Brianza, che colonizza il mondo e diventa l’uomo più ricco
del pianeta. Proviamo a ipotizzare file di persone, magari anche a
Singapore, tutte in coda per comprare i “mobili Grappeggia”.
Sarebbe mai possibile una cosa del genere in Italia?
4.4 Il coworking è figlio della mentalità cloud
Ivan
Gli startupper US sono abituati a lavorare in autonomia sui propri
progetti, per questo sfruttano molto gli spazi di coworking. In-
teressante il fatto che per accedere ad alcuni di questi, tipo Rock-
etSpace, NON devono essere finanziati dai genitori o da parenti di
primo grado. Altrimenti non entrano, non gli danno le scrivanie!
Abbiamo fatto un giro in un po’ di questi spazi. Premetto che
tendenzialmente sono concentrati a SanFrancisco; nella Silicon Val-
ley sono pochissimi e sono principalmente incubatori o acceler-
atori. Abbiamo visto RocketSpace, The Hub (parente lontano di
quelli di Milano) e The Intersection (Coworking per artisti). Really
cool.
Le strutture sono davvero pazzesche.
Sorprendenti i cubicle per telefonare: la privacy di una call si
esaurisce in una cabina telefonica dove stai a malapena seduto.
Ergo: telefoni e poi sloggi lasciando il posto ad un altro e ritorni a la-
vorare al tuo posto. Questa cosa è educativa, ti dà anche la misura
del tempo che impieghi al telefono inutilmente; se lo devi fare in un
cubicle invece che con i piedi sulla scrivania, stai tranquillo che ti
concentri sulle cose importanti e al telefono non perdi tempo.
I separè per delimitare i vari spazi sono in genere fatti di vetro e
tutti possono scriverci sopra.
Le sale riunioni si chiudono spesso con saracinesche che, se non
fosse per la trasparenza, ricorderebbero quelle dei garage.
Ci sono lavagne ovunque, plexiglass colorati e marker (viola fluo!)
attaccati ai muri. Chi lavora negli spazi coworking li usa per farsi
capire meglio dai colleghi ma poi, a riunione terminata, li lascia
come stanno e questo crea macchie di colore davvero belle da
vedere.
Il WiFi è free dappertutto. In alcuni posti per collegarti al web sei
obbligato a rispondere alle survey o a guardare un video pubblicit-
ario, ma nella maggior parte dei casi accedi senza ostacoli o perdite
di tempo.
La sicurezza in queste location è ai minimi storici, si limitano al
check-in/check-out.
Per agevolare il networking organizzano pranzi gratis a base di in-
salate, ovviamente nelle kitchen e nei salotti creati appositamente
all’interno del coworking.
Tutto molto minimale. Anche i tavoli da lavoro sono stretti e lunghi,
hanno le ruote per agevolare gli spostamenti, la corrente arriva
dall’alto e a terra non c’è nulla. In questo modo è facile ribaltare
tutto in poco tempo, creare spazi per eventi, essere più dinamici
possibile.
37/51
Conclusioni
Certamente non occorreva scoprire di nuovo l'America per aggiorn-
arsi sullo "state of the cloud". Lo ha spiegato bene Giuseppe,
come il dispiegamento di siti, servizi e reti (social e non solo) offra
una visibilità quasi completa degli andamenti delle cose anche dalla
propria italica scrivania.
Esiste peraltro una consapevolezza delle cose più fisica, che nessun
attuatore saprà mai riprodurre a distanza. La mentalità e il ritmo di
uno spicchio di società dove la startup è normalità quotidiana, per
esempio. Il valore posto nella combinazione sempre peculiare della
persona e della propria idea: l'obiettivo è ogni volta dare vita a un
progetto in cui si crede, prima del posto sicuro e prima delle garan-
zie. Che ci vogliono e sulle quali il Vecchio continente è qualche
passo avanti sul nuovo, intendiamoci.
Parlando e condividendo la giornata con molti ventenni, tuttavia, si
trova più naturale vederli creare nuove opportunità, più che
chiedere un paracadute. E impressiona la naturalezza
dell'ecosistema dei finanziamenti, nonché la positività che viene
riconosciuta ai fallimenti. Se hai sbagliato prima, hai certamente im-
parato cose che ora ti aiuteranno a fare meglio e le tue probabilità di
ricevere fondi aumentano: un paradigma su cui l'Italia da rilanciare
in produttività e crescita potrebbe interrogarsi con profitto.
Maggiormente in tema con le ragioni di questo viaggio, siamo tor-
nati più che mai convinti della strada che abbiamo tracciato per
Enter e che abbiamo potuto saggiare a contatto con "quelli che con-
tano". Openstack è creatura vivissima e dannatamente in
evoluzione, che avrà un impatto crescente. Il cloud come industria
arriverà in tempi non lunghissimi a distinguere scelte lungimiranti e
aperte da approcci più estemporanei e di imitazione. Con le nostre
iniziative già in corso, siamo a cavallo di tendenze come il cowork-
ing, un cambio di mentalità carico di grande potenziale e grandi ef-
fetti trasformativi, sul lavoro e sulla società. Abbiamo toccato con
mano l'evoluzione più avanzata del coworking e siamo convinti di
essere sulla giusta direzione, così come pensiamo che il nostro la-
voro teso a tessere legami tra i provider europei contribuisca a rag-
giungere quella dimensione di rete continentale che per l’America è
quotidiana da secoli.
Certamente, non c'era bisogno di riscoprire l'America. Questa esper-
ienza ha invece aggiunto molto alla narrazione basata sulla tras-
formazione del nostro lavoro. È l'intera industria IT che il cloud po-
trebbe trasformare, spostandone la centratura dagli asset ai servizi,
dall'on-premises all'on-demand.
39/51
Post scriptum
Quest'opera è distribuita con licenza Creative Commons At-
tribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia
Enter è un Internet Service Provider che opera dal 1996 ed attual-
mente sta effettuando significativi investimenti in ambito cloud. Nel
maggio 2012 ha lanciato Cloudup, il primo servizio IaaS di cloud
server basato su Openstack. Tra i vari progetti in questo ambito, è
anche impegnata nel far crescere Enter the Cloud, un blog in cui si
parla di cloud a 360°.
Making of
Questo eBook è frutto di uno sforzo collettivo di persone, hardware
e software.
Ringraziamo Mariano Cunietti e Giuseppe Civitella per avere rac-
contato on demand la loro esperienza ogniqualvolta servisse; Ivan
Botta per il prezioso insight sui temi di cloud, SDN e connettività;
Martina Casani per il coordinamento e per avere reso disponibili
tutte le risorse necessarie, anche in termini di caffè e coworking;
Manuela Misani per avere dato un aspetto umano al nostro testo
che, da solo, avrebbe saputo di argilla primordiale; Matteo Roversi
per averci accompagnati in alcuni degli incontri più interessanti.
iPhone, iPad, Galaxy S3, MacBook Pro 17” e iMac 21” hanno fornito
il substrato hardware.
Il testo è stato raccolto collaborativamente su Google Drive e la
postproduzione è stata effettuata su Sigil. Foto e materiali vari sono
stati condivisi attraverso Dropbox.
Lucio Bragagnolo, Stefano Garavaglia
Dicembre 2012
Protagonisti
Ivan Botta
Di pura razza piemontese, CEO di Enter, si occupa da sempre di In-
ternet Service Providing. Sull'isola deserta, porterebbe un Mondrian
e il suo cavallo. < back
@ivanbotta
Mariano Cunietti
Responsabile Tecnico in Enter, già sistemista Linux, chitarrista clas-
sico, tennis wannabe, ambizioso sempre più del giusto, soddisfatto
mai. < back
@mcunietti
Giuseppe Civitella
Sistemista, si occupa di sistemi Gnu/Linux, virtualizzazione e cloud
computing. Da grande metterà la testa a posto aprendo il birrificio
dei suoi sogni. < back
@gcivitella
43/51
Autori
Lucio Bragagnolo
Ha iniziato a scrivere sulla gomma. Oggi lo fa anche su vetro, dis-
truggendo intanto numerose tastiere in plastica.
@loox
Stefano Garavaglia
29 anni, è Digital PR manager di Enter e blog-
ger di Enter the cloud. Sport praticati: reggae,
rum e ottimismo. Non ricorda i nomi di
nessuno.
@enter_the_cloud
45/51
Note
La rete si fa software
Big Switch Network si autodefinisce leader nell’open Software
Defined Networking (SDN). Una architettura di rete Open SDN im-
piega un protocollo software standard industriale che che astrae il
piano dei dati sulla rete dal piano di controllo e rende così indi-
rizzabile e programmabile da software esterno la struttura di rete
sottostante. Per Big Switch, presso la quale lavorano alcuni membri
del team che ha progettato inizialmente il protocollo OpenFlow
presso la Stanford University, il networking definito via software
rappresenta il movimento più rivoluzionario negli ultimi vent’anni
di sviluppo del settore. A fine ottobre 2012 Big Switch ha ottenuto
un secondo finanziamento di 25 milioni di dollari cui hanno con-
tribuito, tra le altre, Goldman Sachs e Index Venture.
< back
Una visione concreta del virtuale
Midokura vede un futuro di infrastruttura di rete più flessibile, per-
sonalizzabile e adattabile per mezzo della virtualizzazione di rete e
ha realizzato uno strato di software dedicato espressamente a questa
funzione, MidoNet. Questa soluzione fornisce lo strato di software
direttamente all’interno degli apparecchi fisici di rete, oggi poco effi-
cienti e poco scalabili. Al contrario, attraverso l’implementazione di
Midokura la macchina fisica diviene una piattaforma virtuale,
scalabile anche verso centinaia di migliaia di porte.
< back
L’hosting con la acca maiuscola
DreamHost è in attività da quindici anni, ere geologiche in questo
settore dove ogni giorno germoglia una startup. Naturalmente era
una startup anche la loro, quella di quattro studenti di Computer
Science al college californiano Harvey Mudd di Claremont. Capitale
di partenza: un server web con processore Pentium 100 e banda
condivisa su una linea T1 concessa gratuitamente da un amico.
Oggi i server sono 1.500 con un milione di dominî amministrati.
DreamHost ama ricordare in particolare il mezzo milione abbond-
ante di blog e siti basati su piattaforma Wordpress e ospitati sulla
loro piattaforma. L’abuso di acqua di colonia a DreamHost è
passibile di licenziamento, sostiene il management, oppure – con
maggiore aderenza alla realtà – causa di otto ore abbondanti di
sfottò.
< back
La multinazionale di Openstack
Mirantis ha sede in Mountain View, uno dei tipici non-luoghi della
Silicon Valley, lo stesso di Google e Adobe. Sostiene ufficialmente di
basare il proprio business sulla trasparenza: implementazioni cloud
indipendenti dal vendor, senza compromessi rispetto ad agganci
opachi o impacchettamenti proprietari.
Chi cercasse il bacino più ampio di esperienza ingegneristica ri-
guardante OpenStack, dovrebbe bussare alla porta di Mirantis,
eventualmente quella delle sedi distaccate in Russia e Ucraina.
Se avete bisogno di farvi amico Boris Renski, provate ad attaccare
bottone con i modellini radiocontrollati di elicotteri.
47/51
< back
Massimo rendimento, minimo sforzo
Scalr fa grandi cose con una piccola struttura, che al momento
misura diciassette persone, ed è guidata da un amministratore che
ha in testa il pensiero fisso di massimizzare e minimizzare quanto
umanamente possibile.
Nel coltivare sogni di grandezza futura come ogni startup che si
rispetti, Scalr riesce nell’impresa di avere un flusso di cassa positivo
grazie al servizio Scalr.net.
La loro pagina About Us sembra l’annuario del liceo e non per l’im-
postazione grafica.
< back
Uno che sa presentarsi (e presentare)
Sebastian Stadil prosegue la tradizione di imprenditori e business-
man francesi che hanno varcato l’oceano Atlantico e si sono accasati
professionalmente in riva al Pacifico, nonostante l’offerta
transalpina di buoni formaggi sia infinitamente superiore a quella
californiana.
A portare avanti il sogno inseguito da nomi prestigiosi del passato
recente come Jean-Louis Gassée (ex Apple) e Philippe Kahn (fond-
atore di Borland) ha iniziato da giovanissimo, al termine del suo
corso di studi presso la Scuola superiore di Commercio di Lille. Scalr
non è la sua prima impresa; è stato precedentemente coinvolto in
Cloud In Code, Intalio e Swophit.
< back
Un altro che non le scala prima di mandarle a dire
48/51
Randy Bias non è esattamente un ragazzino perché bazzica l’Inform-
ation Technology dagli anni novanta; un aneddoto apocrifo narra
che la sua prima frase pronunciata da piccolissimo sia stata twenty-
four/seven.
Randy si attribuisce il merito del primo framework al mondo per la
gestione di cloud multipli e cloud multipiattaforma. The Next Web
lo ha considerato nel 2011 uno dei primi venticinque personaggi in-
fluenti che twittano in materia di cloud. Riconoscimento un po’ ba-
rocco, certamente non facile da ottenere. Non fategli notare che
nella classifica è “solo” quindicesimo.
< back
Quando nasce una stella
Eric Windisch è l’attuale Systems Engineer di Cloudscaling e, nono-
stante la giovanissima età, ha già 10 anni di esperienza nel campo
della virtualizzazione e della billing automation. È fondatore
dell’hosting provider GrokThis.net. Attento utilizzatore di Open-
stack fin dalla prima release, Austin, è parte attiva del progetto dal
rilascio di Cactus.
< back
Il progetto che compete con Openstack
Questo l’annuncio che il 26 novembre abbiamo letto sul blog di
Apache: “The Apache CloudStack project is pleased to announce the
4.0.0-incubating release of the CloudStack Infrastructure-as-a-Ser-
vice (IaaS) cloud orchestration platform.”
In principio, Citrix sembrava aver deciso di portare avanti un fork
particolare di Openstack. Poi ha cambiato rotta.
Dall'acquisizione di Cloud.com da parte di Citrix nel 2011, la com-
munity open source CloudStack.org ha visto moltiplicarsi il coinvol-
gimento degli utenti.
49/51
Citrix ha inoltre presentato Citrix Cloud Community Program, che
introduce un set di prodotti e servizi Citrix Ready verificati per
l'integrazione con le soluzioni cloud di Citrix.
Anche in questo caso, si inizia a parlare di un “ecosistema” di servizi
cloud; anche in questo caso, si parla di cloud open source.
< back
Il fattore Y
Y Combinator ha messo a punto nel 2005 un nuovo modello di fin-
anziamento delle startup, articolato in due fasi annuali di investi-
mento a pioggia, su un gran numero di nuove nate (nell’ordine delle
decine) per piccoli importi, con una media di 18 mila dollari. Le
startup si trasferiscono in Silicon Valley per tre mesi, durante i quali
vengono curate e messe in perfetta forma e immagine per il Demo
Day, nel quale ciascuna startup si presenta a una platea di invest-
itori “veri”.
Le aziende finanziate da Y Combinator sono finora più di 460, tra le
quali AeroFS, Airbnb, Cloudkick, Disqus, Dropbox, Justin.tv, Red-
dit, Scribd, Songkick, Stripe, Weebly e ZumoDrive.
< back
50/51
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Cloud in the USA. On the road tra startup e downtown

  • 1.
  • 2. Cloud in the USA On the road tra startup e downtown Di Lucio Bragagnolo e Stefano Garavaglia
  • 3. Introduzione Che in America voglio andar È ancora tempo del “viaggio in America” alla ricerca degli ultimis- simi aggiornamenti sulla frontiera della tecnologia? Mariano Cuni- etti (Responsabile Tecnico), Giuseppe Civitella (Sistemista e Cloud Architect) e Ivan Botta (Amministratore Delegato), tutti parte del team di Enter, si sono posti non tanto questa domanda, ma un quesito più sfidante: in che direzione sta andando l’evoluzione del cloud? La risposta, che Bob Dylan si era limitato a collocare nel vento (Blowing in the Wind) e Douglas Adams aveva fissato in 42 nella Guida Galattica per Autostoppisti, è stata dirigersi verso Openstack. Il viaggio è nato così. Lungo (e durante) il percorso, la partecipazione a Openstack Summit 2012 in quel di San Diego è diventata il nucleo centrale di un’esperienza più articolata e coinvolgente, fatta di persone, aziende, eventi, situazioni sicuramente diverse dall’epica dell’On the
  • 4. Road e più adatte invece a tracciare un panorama di evoluzione tecnologica da fonti diverse dall’usuale. Invece che feed RSS, gruppi di discussione, mailing list, newsletter e reti sociali, i nostri manager hanno fatto il punto sui propri progetti, andando a parlarne là dove i cambiamenti sono velocissimi, a volte troppo persino per loro, e dove le persone, le idee, le startup as- sumono valore in modo diverso dal nostro. Non necessariamente migliore, ma certo indispensabile se si voglia arricchire una esperi- enza professionale nella tecnologia di rete e di cloud, specialmente in tema di Infrastructure as a Service, il canonico IaaS degli ad- detti ai lavori. Dal resoconto di questo viaggio non emergono solo le ultimissime dall'Openstack Summit 2012 o alcune esperienze sul cloud in- frastrutturale, sui cui Enter in questo momento sta concentrando la propria attenzione. Ma anche una visione più globale di un panor- ama industriale e professionale che nemmeno la più evoluta delle reti sociali basterà a fornire. Il viaggio in America è datato? Queste pagine sono l’occasione per pensarci su. E per (ri)pensare le nostre idee di cloud, evidentemente. 4/51
  • 5. 1. Dope’n’Stack. Quando Openstack è business, passione e dipendenza Chiediamo scusa ai ragazzi di Piston Cloud, autori del “cloud an- them” presentato in anteprima al festival della canzone cloud di San Diego. Il titolo di questo paragrafo prende un leggero spunto dal vostro lavoro, ma vi linkiamo.
  • 6. 1.1 Ma i numeri ci interessano? Mariano Ci interessano, leggiamo ricerche tutti i giorni. Ce n’è uno che ne pubblica parecchi. È anche lo stesso che è stato preso in giro per tutto il Summit. Eh sì: perché una tra le più note società di ricerche di mercato nel settore ICT, Gartner, ha pensato bene di dire che Openstack “is not ready for production”. Tutti quelli che hanno tenuto un keynote hanno commentato questa “offensiva” dichiarazione: il leit-motiv delle critiche è stato: “Guardate questa sala. Noi saremmo quelli che non sono pronti?”. E se due anni fa eravamo in 85, oggi al Summit siamo 1.500. Boati e tifo da stadio. A parte gli scherzi, il panorama del cloud computing americano di- venta interessante se osservato non dal punto di vista del fatturato ad oggi generato, ma dalla prospettiva degli investimenti. Aziende come HP, Dell, Cisco, Red Hat e IBM hanno speso, negli ultimi due o tre anni, fondi sempre più cospicui in termini di marketing e svi- luppo per sostenere progetti open source. Di fatto hanno messo soldi nella community. Alcuni partecipano nel board della Open- stack Foundation, altri forniscono sviluppatori. Ma in generale, il coinvolgimento è sempre più intenso. Ora che, da settembre, l’Openstack Foundation è diventata indi- pendente, si parla di 10 milioni di dollari di investimenti per i prossimi 3 anni.(Fonte Reuters)
  • 7. La marcia in più di Openstack deriva dalla sua natura di movimento open source, molto simile al modello Linux (e infatti molti lo defin- iscono il “Linux del cloud”); c’è quindi molta partecipazione anche filosofica ed emotiva al progetto. Com’è ovvio, poi, nonostante le peculiarità open del software, alcuni vendor cercano comunque di trascinare la soluzione in un’ “arena proprietaria”: parlo di aziende come Citrix, Suse, ma anche Nebula e PistonCC. 7/51
  • 8. 1.2 Ho preso un aereo e da Milano sono atterrato a San Diego Mariano Sono partito con l’idea di andare a vedere il cloud in America. Vi racconto le mie emozioni e le impressioni. Primo, non mi aspettavo di trovare questa apertura e una così grande partecipazione al progetto Openstack: chi collabora è vera- mente entusiasta. Poi, un’altra forte sensazione: lavorare sul cloud riassume tutte le tecnologie, le competenze e il modus operandi di un ISP. I vendor sono tendenzialmente più abituati a vendere hardware, difficilmente si metteranno, per vocazione, a fare grosse sperimentazioni ar- chitetturali sui load balancer, i DNS, le reti a qualunque livello, i firewall, i server fisici e virtuali: per padroneggiare il cloud comput- ing devi raggiungere un alto livello di conoscenza su ciascuno dei livelli interessati (hardware, software, rete): è uno sforzo non indif- ferente che non può prescindere da un bagaglio di competenze pre- gresse consolidate. Giuseppe
  • 9. Ero convinto che noi italiani fossimo indietro, avevo bisogno di veri- ficare. Di vederlo coi miei occhi e toccarlo con le mie mani. Ero certo che in America ne sapessero molto di più, che fossero av- anti anni luce anche sul versante Openstack. Sono arrivato là per scoprire cosa succederà nelle prossime release del software, per ca- pire che direzione prendere nell’implementazione e nello sviluppo del “Nostro Cloud”. Ma mi sono reso conto che seguire il dibattito su Twitter, canali IRC e blog della community, per quanto dispendioso in termini di tempo, permette di tenere il passo anche dall’Italia. Con questo non dico che il viaggio non sia servito, anzi, aa sottolineo il fatto che la community degli Openstack-lovers è più attiva e globale che mai! Ivan Le mie aspettative prima della partenza non erano rivolte solo a Openstack, ma più in generale al cloud made in USA. Sono partito con l’obiettivo di incontrare le aziende per cercare collaborazioni utili ad accelerare e impreziosire lo sviluppo dei nostri servizi. Obi- ettivo centrato. Volevo anche vedere come innovano oltreoceano le aziende che si occupano di Software Defined Networking: abbiamo incon- trato Big Switch e Midokura. I più “grandi” in questo settore sono quelli di Nicira, azienda acquis- ita da VMware, ma non li abbiamo conosciuti. Un peccato, ma non una grande perdita. Secondo me sono fuori dal mercato; chi ragiona esclusivamente su soluzioni proprietarie dovrà fare i conti con le richieste sempre più puntuali da parte della domanda. 9/51
  • 10. 1.3 Gli amici che porterò sempre con me. Ma anche quelli che... “Mi raccomando, non perdiamoci di vista” Mariano Ad un certo punto mi si avvicina un tale che assomiglia a Jeff Bridges e mi dice “Piacere, Simon”. Era Simon Anderson, CEO di DreamHost. Nei quattro giorni dell’Openstack Summit abbiamo assistito ad alcuni loro keynote e abbiamo davvero apprezzato la direzione tecnologica impressa alla loro infrastruttura. Non ho sen- tito i suoi discorsi lontani da quelli che facciamo nel quotidiano anche qui in Italia, parlare con lui mi ha fatto sentire “sul pezzo”. Un personaggione poi è Boris Renski di Mirantis, un tipo russo che ha il senso dell’umorismo russo e parla come Borat. Ecco, lui ha capito come si vendono le soluzioni. Attenzione: non prodotti, ma soluzioni! È entrato completamente nel progetto Openstack, tanto da poterlo prendere e ribaltare, montare e smontare in base alle pro- prie esigenze e a quelle dei suoi clienti. In poco tempo ha trasform- ato un’azienda IT/web tuttofare in una Openstack Company. Attualmente ha all’attivo qualcosa come 30 progetti di cloud pub- blico e privato basati su Openstack (e pare che fatturino anche molto, tanto da dedicare uno speech al tema “How to Make Money With Openstack“), tra cui l’implementazione di una piattaforma ob- ject storage di backend per Cisco Webex. Non solo ha fatto un’analisi precisissima del mercato Openstack e del suo valore attuale e futuro, ma ha dato coordinate precise su quando Openstack costituirà un valido sostituto per VMware in am- bito Enterprise negli anni a venire. Bellezza.
  • 11. Poi ci sono i ragazzi di Scalr a cui spetta, pur non avendo alcun ruolo attivo nel Summit, il primo premio per la presentazione più in- teressante. Tra tutte le aziende che ho incontrato, sono quelli che finora si sono spinti più avanti nella comprensione e nell’utilizzo del cloud come commodity. Sono poche persone, tutti giovani-giovanissimi, guidati da Sebastian Stadil, un francese laureato in economia e matematica finanziaria che i numeri li fa girare davvero bene. Dal 2008 stanno lavorando su un software in grado di interfacciarsi con tutte le piattaforme cloud più note e di interagire con l’in- frastruttura virtuale dei clienti, fornendo servizi di autoscaling, fault tolerance, configuration management centralizzato, backup, librerie di template, statistiche. Possono creare intere infrastrutture con bal- ancer, proxy, cache, front-end, application e database server con po- chi clic. Le stesse configurazioni vengono dispiegate con Chef sulle macchine, e non c’è bisogno nemmeno di loggarsi nel sistema per gestirle. E la cosa sorprendente è che questo software è completa- mente open source, non lo vendono... lo regalano! Come si mantengono? Con le consulenze. Impressionante! Faremo un progetto con loro nei primi mesi del 2013. Però, ad un certo punto dirai: “non può essere stato tutto bello, no? Avrai incontrato anche qualcuno che ti ha fatto dire ‘ma fammi il favore…’?” Sì, l’ho incontrato. CloudScaling, in particolare il founder e CTO Randy Bias. Il loro approccio è molto più chiuso. Avranno sicuramente una soluzione straordinaria perché hanno contratti, tra gli altri, con Korea Telecom e Internap. Ma la sensazione è che puntino ai pesci grossi, alle grandi telco. Anche il loro modo di porsi è un pò distante dall’approccio più accogliente delle altre realtà che abbiamo incontrato. 11/51
  • 12. 1.4 Il "Fuori Summit". Un aperitivo da raccontare Mariano Memorabile la serata all’Hard Rock Cafè di San Diego. Entro e mi siedo al tavolo con Giuseppe. Due nerd col cocktail in mano. Da soli, perché non conoscevamo nessuno. Ad un certo punto si siedono vicino a noi due personaggi: uno lo riconosciamo subito, è la stella nascente dello sviluppo di Openstack, Eric Windisch. L’altro, di cui non ricordo il nome, attacca a parlare e dopo un po’ gli chiedo “ma tu che lavoro fai?”. Lui, con estrema calma, risponde “ma niente... ho sviluppato la rete di iCloud”. E lo dice così, come se avesse preparato un piatto di patatine fritte. Agli aperitivi e alle feste dell’Openstack Summit mi sono anche fatto un’idea degli operatori cloud e degli startupper tecnologici americ- ani: tutti ragazzini, davvero molto molto giovani. Giovanissimi e mediamente alcolizzati.
  • 13. 1.5 Ma guarda un po’ questi scappati di casa Mariano Il titolo serio poteva essere “Italiani in America”. Sembra incred- ibile, ma lungo il nostro viaggio tempestato di incontri con dei nerd pazzeschi abbiamo incrociato anche qualche italiano. La maggior parte erano turisti da shopping del sabato pomeriggio. Gli altri, po- chi (pochissimi) erano lì per il Summit o perché lavorano nel mer- cato cloud. A San Diego tre, due italiani di Cloudbase e uno sviluppatore che la- vora per Dream Host in Italia ma è in attesa della carta verde per trasferirsi in America. In Google abbiamo conosciuto un italiano di Caserta, anche lui scappato dall’Italia, che ci ha guidati in una sorta di tour aziendale. Poi abbiamo incontrato Stefano Maffulli, su Twitter @smaffulli. Si dice che l’inferno è quel posto in cui c’è la polizia tedesca, la cucina inglese, la musica francese e il tutto è gestito da un italiano. E Ste- fano Maffulli è il community manager di Openstack!
  • 14. 1.6 In volo verso San Francisco Mariano La settimana a San Diego è volata, l’Openstack Summit mi ha dato parecchie soddisfazioni e conferme. Mi sono reso conto che abbiamo capito, che con il nostro cloud siamo sulla strada giusta. Siamo at- terrati in America con un’idea e ce la siamo portata a casa quasi così com’era, abbiamo capito che è sostenibile. Parlando con vari colleghi al Summit ci siamo stupiti piacevomente del fatto che al momento non ci sono risposte certe. Tanti socratici, insomma, che sanno di non sapere. Openstack è un continuo “lavoro in corso”, forse perché le problematiche (oltre che le opportunità) sollevate dal cloud sono sempre nuove. Chi decide di utilizzarlo ha esigenze sempre diverse, per le quali occorre trovare (-->sviluppare) una soluzione. Di fronte ad un dubbio che abbiamo voluto condividere con i nostri interlocutori, l’approccio non è mai stato “mi aiuti a fare questa cosa?”. Eravamo consapevoli che ci avrebbero risposto “che diavolo vuoi? Anch’io sto provando a fare la stessa cosa. Easy man, abbiamo lo stesso problema”. Si collabora: con Openstack ti senti meno solo e, allo stesso tempo, hai la sensazione di essere un apripista. Sai che dall’altra parte del mondo, dove sono notoriamente tre anni avanti, stanno facendo le stesse cose che fai tu in Italia. Questa consapevolezza è rassicurante e allo stesso tempo da brivido. È come entrare in cabina di pilotaggio e scoprire che non c’è
  • 15. nessuno, o che ci sono tante persone che cercano di trarti in salvo ma che non hanno ancora capito bene come fare. L’approccio di un vendor invece è totalmente diverso, con loro non puoi nemmeno entrare in cabina quindi non ti poni il problema. Sai che qualcuno penserà al posto tuo. E speriamo che pensi bene. Rileggo e mi accorgo che ho dato un’immagine tutta “rose e fiori”. Non è affatto così, questa parte di viaggio mi ha riservato anche delle delusioni profonde. La smoke free policy, ad esempio: per fu- mare devi stare almeno dieci metri lontano dagli ingressi di qualsi- asi edificio. Cose da pazzi! E poi, il ristorante afghano di fronte al nostro hotel: impraticabile! Direi che negli Stati Uniti si mangia veramente male. In certi ristoranti con il conto ti portano anche la prognosi. 15/51
  • 16. 2. What the f**k is Openstack? Parliamo del software open source che ha rivoluzionato le fonda- menta del cloud infrastrutturale. Openstack è uno strumento che permette di realizzare e utilizzare servizi cloud IaaS on demand, elastici, con accessibilità illimitata e possibilità di modificare le risorse di calcolo in qualsiasi momento. Serve anche per rendere possibili, in modalità self-provisioned, quei servizi strutturali che sono da sempre patrimonio di competenze degli ISP.
  • 17. 2.1 Cosa cambia per chi sceglie Openstack? Giuseppe Anch’io ho seguito su twitter il dibattito generato delle dichiarazioni di Gartner. Il concetto era abbastanza semplice: loro dicono “Sì, Openstack è carino, ma non è un prodotto, non è una cosa fatta e fi- nita”. Forse è questa la differenza da interpretare: Openstack non sarà mai un prodotto. È una Fabbrica del Duomo, è in continua evoluzione, è un software per il cloud su cui mettono mano migliaia di sviluppatori in tutto il mondo arricchendone quotidianamente le potenzialità e rendendolo più stabile. Tutto in costante condivisione con gli altri utilizzatori, tutto free. Openstack è filosoficamente legato al concetto di cloud: cloud computing significa anche e soprattutto condivisione delle risorse. Le aziende che lavorano con Openstack sono sia quelle che vendono cloud pubblico (Rackspace e Cloud Scaling ad esempio) che quelle che scelgono di offrire soluzioni di cloud privato (ad esempio Nebula e Piston CC). Spesso chi usa Openstack è impegnato in prima per- sona nello sviluppo. Usare soluzioni preconfezionate, standardizzate, proprietarie - usare quindi dei “prodotti” intesi come li intende Gartner - attiva un processo abbastanza vincolante, seppur rassicurante, secondo me destinato a (far) morire: io imposto per la mia azienda una soluzione che si basa sulle specifiche del produttore di software. Quando questo produttore cambia le specifiche o rilascia l’aggiornamento, allora anch’io devo aggiornare i miei sistemi. Se c’è qualcosa che non va, devo girare intorno al problema e aspettare (sperare) che chi mi fornisce il software aggiorni al più presto e “pensi anche a me”.
  • 18. Con le soluzioni open non è così: il cloud di Rackspace non aspetta la prossima release di Openstack per aggiornarsi, è in continuo ag- giornamento. Niente più attese, lavoro direttamente io sul codice. Faccio le modifiche, poi ci sono i test e, se tutto va a buon fine, si va in produzione. Certamente, questo comporta un grande impegno. Ci tengo a spiegare più in concreto questo concetto: a San Diego ab- biamo incontrato un italiano di DreamHost, Rosario: ci ha spiegato come la sua azienda ha modificato il sistema di billing per integrarsi con Openstack. Se avessero ragionato in “vecchio stile”, avrebbero dovuto adattare ogni modifica del software ai loro sistemi perdendo un sacco di tempo. Hanno scelto, invece, di far parte degli svilupp- atori che si occupano del billing su Openstack, assicurandosi in questo modo che il software sia sempre compliant con i loro sistemi. Mariano Giuseppe ha fatto degli esempi che riassumono un concetto più am- pio. Siccome io azienda, io sviluppatore, dovrò comunque mettere mano ai miei sistemi per costruire un pezzo che quasi sicuramente manch- erà e che a qualcuno quasi sicuramente servirà, decido di svilup- pare direttamente in condivisione con gli utilizzatori di Openstack. Ci sono 6700 developer che collaborano al progetto: se devi stare al gioco... allora gioca. E fallo con tutta tranquillità, Openstack concettualmente è come Linux. Quindi è open e resterà tale. 18/51
  • 19. 2.2 Liberiamo le reti. Cresce l’interesse per le SDN Ivan Le SDN (Software Defined Networks) sono una vera rivoluzione. Il cloud non è nulla senza la rete e, in questo momento, la rete non è libera. Per disegnare un’architettura di rete occorre scegliere a priori una tecnologia di un hardware vendor, concentrarsi sulla logica dis- tributiva che il vendor stesso consente e, solo successivamente, sull'aspetto funzionale della rete verso gli utenti. Questo avviene perché, fino ad ora, abbiamo mentalmente delegato ai costruttori di apparati di routing e switching l'intelligenza che possiamo impie- gare nel disegnare logicamente e funzionalmente le reti. Adesso è possibile disintermediare questo sistema che si poggia su hardware con software embeddato proprietario. Esistono già in commmercio, a costi che iniziano ad essere conten- uti, apparati hardware in grado di calcolare routing e switching (quasi) infiniti a prescindere dal sistema operativo installato. Gli ap- parati hardware nei POP e nei NOC non avranno vincoli di licenza, quindi prevarrà l'intelligenza nel disegno della rete funzionale e lo- gica rispetto a quella fisica che la sostiene nel trasporto e nel calcolo.
  • 20. 2.3 Openstack sembra una fissazione, quasi una malattia. Garantiamo che esiste altro Mariano Alternative ad Openstack ce ne sono. Joyent, ad esempio, è un bel prodotto creato da gente ex SUN e quindi Oracle. Chi lavora in Joy- ent ripete sempre come aneddoto che è come se un pullman di in- gegneri della Sun si fosse rovesciato in mezzo all’autostrada e fossero arrivate macchine da tutte le aziende a raccogliere i feriti per portarseli via. Un gruppo di questi “incidentati”, guidati dal geniale Bryan Cantrill, ha messo in piedi una suite software che fa virtualizzazione e or- chestrazione con delle feature che altri sistemi basati su Linux non hanno nativamente. Parlo di un file system a 128 bit (ZFS), di statsd e di un modello di virtualizzazione del sistema operativo scritto da veri ingegneri del software. Se Joyent avesse rilasciato alla community il codice per tempo avrebbe superato Openstack. Invece hanno ripetuto lo stesso errore commesso in passato con Open Solaris. Il sistema operativo è dav- vero potente e ben fatto, ma è stato reso open con cinque anni di ri- tardo. In cinque anni succedono molte cose, infatti il loro lavoro, per quanto perfetto, non ha avuto il successo che meritava. Lo avessero condiviso prima, forse Linux non sarebbe diventato il fenomeno che è diventato.
  • 21. Giuseppe Ci sembra interessante segnalare anche Cloudstack, il progetto Cloud Citrix-based, scaturito dall’incubatore di Apache. Cos’ha dalla sua? Il fatto che offre prodotti di gestione già pronti da amminis- trare e, soprattutto, la compatibilità con le API di Amazon. D’altro canto, la user base non è ancora estesissima e ci sembra che la vis- ione strategica sia ancora un po’ acerba. Non vogliamo entrare nella guerra dei numeri: lo terremo d’occhio con curiosità e ci sembra de- gno di nota perché, come Openstack, è un progetto Open. E poi la grande madre: VMware. Lo/la utilizziamo, lo/la ven- diamo, ma... Ne apprezziamo alcune caratteristiche: è leader di mercato, ha avuto un’evoluzione veloce che ha consentito all’azienda di sfruttare appi- eno il vantaggio della prima mossa, è un prodotto solido molto ad- atto ai contesti enterprise. In questo momento, a mio avviso, è in fase di consolidamento: non vedo grosse rivoluzioni in pipeline, ma piuttosto l’aggiunta di nuovi servizi a contorno. D’altra parte ha ancora un punto debole (oltre alle problematiche commerciali relative al licensing e alla rivendibilità, che esulano da una valutazione tecnica del prodotto, ma affliggono noi provider): la scarsa automazione delle configurazioni lato rete (VLAN e cose simili). In questo senso, l’acquisizione di Nicira potrebbe assicurare una buona spinta propulsiva in avanti. In tutto questo excursus, un po' per vocazione, abbiamo preso in considerazione l’ambito di utilizzo del cloud che al momento ci vede più coinvolti, ossia l’Infrastructure as a Service. Altre valutazioni andrebbero fatte per il SaaS, che sta facendo regis- trare elevati tassi di sviluppo, e il PaaS, che sta viaggiando ab- bastanza bene a giudicare dai 30 piani di grattacielo di Salesforce. 21/51
  • 22. 2.4 Amazon contro il resto del mondo? Mariano Sì, decisamente. Sono loro che dettano legge nel mercato IaaS pub- blico, sono loro che hanno stabilito lo standard delle API e sono loro ad aver definito il modo di intendere l’infrastruttura cloud. Sono bravissimi. Peccato che il loro mercato possa solo scendere; al momento hanno la fetta più grossa della torta, ma il settore cloud è in continua espansione, nascono quotidianamente nuovi player che andranno ad insediare il loro strapotere. Qualcuno dice che anche Amazon ha momenti di down (5 in un an- no e mezzo, l’ultimo lunedì 22 ottobre, memorabile quello che ha trascinato giù Instagram, Netflix e Pinterest). A loro discolpa, hanno un’infrastruttura enorme e non è pensabile che facciano sempre backup di tutto, vorrebbe dire fare la copia del cloud. Sono i clienti che non sempre sanno come sfruttare al meglio il po- tenziale che Amazon mette a disposizione e che non utilizzano cor- rettamente le Availability Zones. Si aspettano che, al verificarsi di problemi, ci pensi sempre “mamma hosting provider” a sistemare le cose. È una situazione del tipo “mi si è rotto il gioco, ci hai pensato tu al backup dei miei dati e delle mie app?”. ”No, non hai firmato il contratto e quindi io non ho predisposto nessun backup”. Ci sentiamo di dire che molti dei problemi che riguardano Amazon derivano da un utilizzo dei servizi, da parte della domanda, non
  • 23. ancora del tutto maturo. Questo ci fa riflettere su una cosa. Distribuzione su vari datacenter, ridondanza e programmi/funzionalità di disaster recovery non van- no dati per scontati e spesso distinguono i servizi cloud reali da quelli soltanto proclamati come tali. Ma dobbiamo tutti fare ancora tanta evangelizzazione su come le applicazioni per il cloud si utilizzano, per coglierne al meglio tutte le opportunità, tra cui la sicurezza. 23/51
  • 24. 3. E il Boss cantò a squarciagola... Cloud in the USA! Mariano Ho la sensazione che in America il concetto di cloud sia conosciuto, assodato e utilizzato. Almeno negli ambienti che abbiamo fre- quentato durante il viaggio. A differenza di quanto succede in Italia, sembra che là, quando si nomina il cloud, si sappia di cosa si sta parlando. Da noi se ne parla, è l’hype del momento, ma per ora, nella sostanza, i passi da fare dalla virtualizzazione al cloud comput- ing sono ancora molti. In USA il cloud è acquisito, c’è addirittura una logica “usa e getta”. Prendiamo ad esempio le startup: chi si butta in nuove idee ha bisogno di risorse pronte “presto e bene”, non ha interesse verso le infrastrutture, vuole i servizi. Vuole pagare solo quello che consuma. E quando non consuma smette di pagare, arrivederci e grazie. In casi come questi, il cloud computing è una risorsa oggettiva, utilizzabile e concreta, è una risposta ad un bisogno. In Italia questo bisogno si deve ancora manifestare su larga scala. Far sopravvivere le aziende viene prima della reale utilità o usabilità del prodotto che vendono.
  • 25. 3.1 Ma il cloud in America si vende? Giuseppe Pensavo che gli americani fossero più consapevoli di come vendere il cloud. Invece, mentre colossi come Rackspace e DreamHost sono già avviati, sembra che gli intermedi non sappiano bene dove sbattere la testa. O meglio, evitiamo di essere così drastici: diciamo che i piccoli, medio-piccoli e gli startupper stanno perfezionando idee e progetti, stanno innovando e istruendo i futuri clienti di ser- vizi cloud. Una sera sono andato con Mariano ad una festa di Mirantis (l’azienda del russo fighissimo che parla come Borat) e lì abbiamo conosciuto i ragazzi di Swiftstack. Sapendo che li avremmo incon- trati a San Francisco qualche giorno dopo, anche se in veste più uffi- ciale, salutandoli gli abbiamo detto “dai allora ci vediamo poi nella vostra sede”; e il loro CEO, Joe Arnold, ci ha detto “see you soon, and please be aware that we’re gonna suck your brain”. Praticamente ci ha detto “voi venite a cercare di capire cosa ven- diamo noi? Ma anche noi cercheremo di capire cosa fate voi”. Ivan
  • 26. D’altra parte, le proiezioni di mercato sono abbastanza coerenti (a meno che i vari Istituti di Ricerca non si copino l’uno con l’altro): Forrester prevedeva l’anno scorso che nel 2020 il mercato cloud sarebbe arrivato a 241 billion $; le più recenti stime di Market Research Media sono ancora più ottimistiche: $270 billion entro il 2020. Guardando poi ai tassi di crescita, Deloitte preannunciava un CAGR del 24% tra il 2008 e il 2013; The 451 Group conferma il dato anche se calcolato tra il 2010 e il 2015; Gartner rileva un 19,6% per il 2012. Barriere o no, tornando alla torta, è destinata a lievitare. 26/51
  • 27. 3.2 Siamo sicuri che il cloud privato sia la soluzione? Ivan È una questione di buon senso. Se non sei Google o un’azienda simile, a cosa ti serve il cloud privato? Il cloud computing si fonda sulle asimmetrie di consumo. Fac- ciamo un esempio: l’azienda X quante ore al giorno sfrutta i suoi server? 8? 10? Perfetto. Se l’azienda X non sceglie il cloud, paga e consuma per 24 ore. E se all’azienda X (dove X non sta per Google) proponessero di fare al suo interno un private cloud? Cambierebbe poco rispetto ad un scelta infrastrutturale tradizionale, essendo di dimensioni piccole o medie: non andrebbero ad ottimizzare lo sfruttamento delle risorse di calcolo e della capacità di storage, perché continuerebbero ad al- ternare momenti di attività a tempi morti. Ne sono convinto. Il cloud computing si fonda sulle asimmetrie di consumo: se la tua azienda non le ha, le strutture non si consolidano e quindi non si realizzano né vera efficienza né risparmio. Su cosa ti avvantaggia il vero cloud? Se scegli un sistema condiviso (cloud pubblico) pagherai un po’ di più il tuo costo/consumo, ma lo farai solo per le ore o addirittura i minuti di reale utilizzo e il con- sumo dei momenti di “fermo” non costerà niente. Il vero cloud con- sente di spegnere le macchine in qualsiasi momento e di smettere di pagare. In una cloud pubblica, se la tua macchina è spenta per inutilizzo (ad esempio di notte), saranno altri a sfruttarne le risorse di calcolo e a pagare la propria parte.
  • 28. 3.3 Servizi cloud e mobile temo che non siano garantiti a tutti i cittadini Ivan Mi ha colpito la diversa distribuzione dei servizi tra le grosse città e il resto. Ad esempio a San Francisco hanno tutti l’iPhone. C’è tanto WiFi, reti free ovunque anche se la connettività è di pessima qualità soprattutto nei locali pubblici. Il 4G è arrivato e navighi velo- cemente, ma appena metti il naso fuori dai grandi centri non c’è più niente. Una domenica ho fatto un giro con Mariano: partendo dalla Silicon Valley siamo passati da Saratoga, nella parte interna, e poi Santa Cruz fino a San Francisco costeggiando l’oceano. Niente, il cellulare non andava mai, non prendeva. Se buchi una gomma in quella zona devi aspettare che passi qualcuno, altrimenti sei fregato. Forse anche in America, quando si tratta di reti mobili, ci sono un po' di problemi di digital divide.
  • 29. 4. Hackero ergo sum Ivan San Francisco è la patria della contestazione. E la rivoluzione più importante che ho visto non è tecnologica: si respira un’aria di cam- biamento, c’è voglia di stravolgere i sistemi. Il cloud computing per me non è solo un fattore tecnologico, è un fenomeno sociale che fa parte del processo di democratizzazione e disintermediazione dei sistemi attuali. Lì tutti parlano di hackerare quello che già esiste, di introdursi nelle abitudini della gente e creare una rottura che porti cambiamento. Perché Apple con iTunes ha rivoluzionato la musica? Perché ha hackerato un apparato esistente, si è inserita nel processo consolid- ato di download di file audio via web. Si è insinuata nelle abitudini degli utenti e ha reso la loro esperienza un processo legale e diffuso. Questa, prima di tutto, è una rivoluzione sociale che utilizza la tecnologia, ma che NON nasce da essa. Parto da questa osservazione per agganciarmi alla tematica delle Startup. Girando negli spazi di coworking e nelle aziende a San Francisco ho
  • 30. notato che c’è molta attenzione degli investitori verso idee folli che cercano di disintermediare qualcosa. Mariano e Giuseppe hanno citato le dichiarazioni di Gartner. Se- condo me non è vero che Openstack non è pronto per il mercato, an- zi, io credo che questo software open sia un altro esempio di demo- cratizzazione: dei professionisti hanno deciso di non utilizzare piat- taforme proprietarie e di partecipare allo sviluppo di qualcosa di nuovo. 30/51
  • 31. 4.1 Una strategia vincente: il fallimento Ivan Partiamo da un paradosso: in Italia se fai i soldi vivi nel lusso, se non li fai vivi normalmente (o almeno ci provi). In America devi guadagnare per accedere all’assistenza sanitaria e questo crea “os- sessione” per il vil (ma tanto utile) danaro. Dall’altra parte, però, per le persone che coltivano idee e provano a realizzarle non è mai parti- colarmente difficile trovare finanziamenti. Ma soprattutto non c’è il minimo problema se poi il progetto si rivela un fallimento: tanto il sistema compensa. A San Francisco ci siamo resi conto che, a differenza di quanto ac- cade qui da noi, è abitudine lavorare su una sola idea, non su un ventaglio di progetti. Proprio per questo motivo gli startupper ri- escono a dedicarsi intensamente ad una cosa sola e a pensare in grande. Come campano quindi gli startupper e perché non hanno paura di fallire? Il meccanismo delle startup in America si articola in fasi. Gli star- tupper, in genere, sono amici o colleghi che decidono di investire il loro tempo in un’idea folle. Se hanno già un contratto con qualcuno, si licenziano e usano i loro soldi per avviare le prime fasi del pro- getto. Trovano poi un primo finanziatore che li accompagna alla fase di “Exit”. Quel finanziatore riprende sicuramente i soldi investiti e ri- esce anche a fare margine. Una volta presentato il prototipo della startup su cui ha investito, arriva il venture capitalist che gli per- mette di commercializzare il prodotto, oppure arriva il Google di turno che investe sulle persone e le compra, addirittura
  • 32. risarciscendo i finanziatori iniziali con un extra-bonus del 15-20% sull’investimento iniziale. La fortuna dei giovani americani sta tutta in questi concetti: lì non si pensa solo ai soldi, le idee e le persone hanno un valore enorme. Google l’anno scorso ha “comprato” centinaia di startupper, non tanto per lanciare i loro prodotti, ma perché li ha ritenuti in qualche modo geniali e li ha voluti integrare nell’azienda. In Italia nessuno ragiona così. Se uno startupper americano fallisce una volta, trova sicuramente i soldi per dare vita anche alle idee successive. Per qualche giorno abbiamo viaggiato con Matteo Roversi, CEO di Nevergiveapp, una startup che ospitiamo al Covo, il nostro spazio di coworking. Lui e il suo team hanno sottoscritto l’application form per Y Combinator, azienda che prende le startup e le porta alla fase prototipale, concedendo finanziamenti di almeno 20mila dollari. Nei moduli compilati da Matteo c’era una domanda in cui gli chie- devano quante volte fosse fallito. Lui ha scritto zero e per questo ha incontrato qualche problema in più: in USA non aver collezionato nemmeno un fallimento è sinonimo di poca esperienza. 32/51
  • 33. 4.2 Come pensa lo startupper: le cose per cui ringraziare nel 2012 Derek Andersen ha lavorato in Electronic Arts e ha fond- ato Commonred e poi Startup Grind, una catena di eventi in 35 città di 15 Stati con l’obiettivo di formare, ispirare e collegare gli imprenditori. In occasione del Thanksgiving Day 2012 (la festa del Ringrazia- mento), Andersen ha scritto su TechCrunch un post dedicato alle 42 cose per cui gli imprenditori possono ringraziare. È un documento sintetico eppure singolarmente rappresentativo della cultura della startup e degli startupper, che negli anni si è sviluppata negli Stati Uniti e specialmente nelle aree oramai iconiche da questo punto di vista, come la Silicon Valley. Per la nostra mentalità vi sono eccessi ed esagerazioni, così come in- tuizioni e indicazioni preziose. Ne presentiamo qui una versione italiana depurata da riferimenti locali poco indicativi, comunque presenti nel testo originale. 1) Continua a piacermi una sessione di lavoro dopo l’una di notte. 2) Il mio partner sostiene anche il sogno nonostante i rischi e l’in- certezza. 3) Silicon Valley non riesce a stare dentro una fiction per la televi- sione. 5) Finanziatori come Steve Blank, Naval Ravikant, Mark Suster, Fred Wilson, Paul Graham e Brad Feld 6) Prodotti come Basecamp, Stripe, Github, SendGrid, Google Apps, MailChimp, Square, Eventbrite, MacBook, Microsoft Office e Gmail, che tengono in funzione le nostre attività. 7) Non avere un impiego dalle nove alle cinque orario continuato. 8) Assegni da incassare. 9) Amici che tirano un osso alla tua startup quando ne hai un bisogno disperato. 10) Posso dirigere un'azienda globale dal mio portatile.
  • 34. 11) Genitori orgogliosi della startup del loro figlio. 14) Cofondatori che ti spingono a dare il meglio con il loro esempio. 15) API (interfacce per la programmazione). 16) Libertà di creare e curare un lavoro che ho scelto. 18) Design profondo. 19) Libri per imprenditori come Startup Communities, The Startup Owner’s Manual, Founders at Work e Steve Jobs. 20) Fondatori di startup di tutto il mondo al lavoro incessante per costruire le loro comunità locali. 22) Startup misurate non per il denaro che attirano ma per la trazione che suscitano. 23) Ingegneri intelligenti. 24) Uomini di azienda che lavorano come ingegneri. 25) Investitori e azionisti capaci di capire che nessuno ha sempre ra- gione. 27) Persone che danno senza aspettative o strascichi. 28) Messaggi di ringraziamento dei tuoi clienti. 29) Nessuna accusa di avere gonfiato la crescita della tua azienda. 30) Risultati sopra ogni aspettativa. 31) Clienti disposti a pagare per il tuo prodotto. 32) Risorse che aiutano gli imprenditori come Kauffman Founda- tion, AngelList, Stanford, Startup School, SFciti e Startup Weekend. 33) Bimbi che ti abbracciano anche se esci presto la mattina e torni tardi la sera. 34) Lo stato mentale della Silicon Valley. 35) Il tizio che vale cento volte l’altro tizio prende in mano il conto senza pause imbarazzanti. 36) Prodotti su misura per il mercato. 37) Milionari alla guida di vecchie auto da buttare. 39) Clienti che facilitano la vita invece di complicarla. 40) Fondatori che dormono in macchina o negli uffici di America On Line per farcela. 41) Fondatori che non si arrendono mai. 42) La mia startup è viva per battagliare un altro giorno, settimana, mese. Che altro potrei chiedere? 34/51
  • 35. 4.3 Invitante, tagliente... splendido splendente Ivan Consigli per gli startupper non US: a volte basta dare una lucidata alla propria immagine per sembrare un gigante. È pazzesca la per- cezione che le aziende americane riescono ad imprimere nel nostro immaginario. Funziona esattamente come nei telefilm: tu li guardi e riesci a farti un’idea molto forte di quello che è l’America. Poi ci vai e ti rendi conto che è un po’ diversa da quello che pensavi. Le imprese americane sono bravissime a comunicare il proprio valore reale o percepito: sembrano enormi, dei giganti. Poi vai là e ti rendi conto che sono quattro gatti. Intelligenti, bravi e simpatici, ma comunque quattro gatti. Big Switch, ad esempio. Ci aspettavamo una sede pazzesca e centinaia di dipendenti, ma erano in 30 o 40 ficcati in una stanza da 10 persone. La stessa Apple è stata per anni un’azienda normale come ce ne sono migliaia in Brianza. Solo che sono riusciti a riflettere un’imma- gine tale da diventare veramente impressionanti col passare del tempo. Immaginiamoci un signor “Grappeggia”, proprietario di un mobilifi- cio della Brianza, che colonizza il mondo e diventa l’uomo più ricco del pianeta. Proviamo a ipotizzare file di persone, magari anche a Singapore, tutte in coda per comprare i “mobili Grappeggia”. Sarebbe mai possibile una cosa del genere in Italia?
  • 36. 4.4 Il coworking è figlio della mentalità cloud Ivan Gli startupper US sono abituati a lavorare in autonomia sui propri progetti, per questo sfruttano molto gli spazi di coworking. In- teressante il fatto che per accedere ad alcuni di questi, tipo Rock- etSpace, NON devono essere finanziati dai genitori o da parenti di primo grado. Altrimenti non entrano, non gli danno le scrivanie! Abbiamo fatto un giro in un po’ di questi spazi. Premetto che tendenzialmente sono concentrati a SanFrancisco; nella Silicon Val- ley sono pochissimi e sono principalmente incubatori o acceler- atori. Abbiamo visto RocketSpace, The Hub (parente lontano di quelli di Milano) e The Intersection (Coworking per artisti). Really cool. Le strutture sono davvero pazzesche. Sorprendenti i cubicle per telefonare: la privacy di una call si esaurisce in una cabina telefonica dove stai a malapena seduto. Ergo: telefoni e poi sloggi lasciando il posto ad un altro e ritorni a la- vorare al tuo posto. Questa cosa è educativa, ti dà anche la misura del tempo che impieghi al telefono inutilmente; se lo devi fare in un cubicle invece che con i piedi sulla scrivania, stai tranquillo che ti concentri sulle cose importanti e al telefono non perdi tempo. I separè per delimitare i vari spazi sono in genere fatti di vetro e tutti possono scriverci sopra. Le sale riunioni si chiudono spesso con saracinesche che, se non fosse per la trasparenza, ricorderebbero quelle dei garage. Ci sono lavagne ovunque, plexiglass colorati e marker (viola fluo!) attaccati ai muri. Chi lavora negli spazi coworking li usa per farsi
  • 37. capire meglio dai colleghi ma poi, a riunione terminata, li lascia come stanno e questo crea macchie di colore davvero belle da vedere. Il WiFi è free dappertutto. In alcuni posti per collegarti al web sei obbligato a rispondere alle survey o a guardare un video pubblicit- ario, ma nella maggior parte dei casi accedi senza ostacoli o perdite di tempo. La sicurezza in queste location è ai minimi storici, si limitano al check-in/check-out. Per agevolare il networking organizzano pranzi gratis a base di in- salate, ovviamente nelle kitchen e nei salotti creati appositamente all’interno del coworking. Tutto molto minimale. Anche i tavoli da lavoro sono stretti e lunghi, hanno le ruote per agevolare gli spostamenti, la corrente arriva dall’alto e a terra non c’è nulla. In questo modo è facile ribaltare tutto in poco tempo, creare spazi per eventi, essere più dinamici possibile. 37/51
  • 38. Conclusioni Certamente non occorreva scoprire di nuovo l'America per aggiorn- arsi sullo "state of the cloud". Lo ha spiegato bene Giuseppe, come il dispiegamento di siti, servizi e reti (social e non solo) offra una visibilità quasi completa degli andamenti delle cose anche dalla propria italica scrivania. Esiste peraltro una consapevolezza delle cose più fisica, che nessun attuatore saprà mai riprodurre a distanza. La mentalità e il ritmo di uno spicchio di società dove la startup è normalità quotidiana, per esempio. Il valore posto nella combinazione sempre peculiare della persona e della propria idea: l'obiettivo è ogni volta dare vita a un progetto in cui si crede, prima del posto sicuro e prima delle garan- zie. Che ci vogliono e sulle quali il Vecchio continente è qualche passo avanti sul nuovo, intendiamoci. Parlando e condividendo la giornata con molti ventenni, tuttavia, si trova più naturale vederli creare nuove opportunità, più che chiedere un paracadute. E impressiona la naturalezza dell'ecosistema dei finanziamenti, nonché la positività che viene riconosciuta ai fallimenti. Se hai sbagliato prima, hai certamente im- parato cose che ora ti aiuteranno a fare meglio e le tue probabilità di ricevere fondi aumentano: un paradigma su cui l'Italia da rilanciare in produttività e crescita potrebbe interrogarsi con profitto. Maggiormente in tema con le ragioni di questo viaggio, siamo tor- nati più che mai convinti della strada che abbiamo tracciato per
  • 39. Enter e che abbiamo potuto saggiare a contatto con "quelli che con- tano". Openstack è creatura vivissima e dannatamente in evoluzione, che avrà un impatto crescente. Il cloud come industria arriverà in tempi non lunghissimi a distinguere scelte lungimiranti e aperte da approcci più estemporanei e di imitazione. Con le nostre iniziative già in corso, siamo a cavallo di tendenze come il cowork- ing, un cambio di mentalità carico di grande potenziale e grandi ef- fetti trasformativi, sul lavoro e sulla società. Abbiamo toccato con mano l'evoluzione più avanzata del coworking e siamo convinti di essere sulla giusta direzione, così come pensiamo che il nostro la- voro teso a tessere legami tra i provider europei contribuisca a rag- giungere quella dimensione di rete continentale che per l’America è quotidiana da secoli. Certamente, non c'era bisogno di riscoprire l'America. Questa esper- ienza ha invece aggiunto molto alla narrazione basata sulla tras- formazione del nostro lavoro. È l'intera industria IT che il cloud po- trebbe trasformare, spostandone la centratura dagli asset ai servizi, dall'on-premises all'on-demand. 39/51
  • 40. Post scriptum Quest'opera è distribuita con licenza Creative Commons At- tribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia Enter è un Internet Service Provider che opera dal 1996 ed attual- mente sta effettuando significativi investimenti in ambito cloud. Nel maggio 2012 ha lanciato Cloudup, il primo servizio IaaS di cloud server basato su Openstack. Tra i vari progetti in questo ambito, è anche impegnata nel far crescere Enter the Cloud, un blog in cui si parla di cloud a 360°.
  • 41. Making of Questo eBook è frutto di uno sforzo collettivo di persone, hardware e software. Ringraziamo Mariano Cunietti e Giuseppe Civitella per avere rac- contato on demand la loro esperienza ogniqualvolta servisse; Ivan Botta per il prezioso insight sui temi di cloud, SDN e connettività; Martina Casani per il coordinamento e per avere reso disponibili tutte le risorse necessarie, anche in termini di caffè e coworking; Manuela Misani per avere dato un aspetto umano al nostro testo che, da solo, avrebbe saputo di argilla primordiale; Matteo Roversi per averci accompagnati in alcuni degli incontri più interessanti. iPhone, iPad, Galaxy S3, MacBook Pro 17” e iMac 21” hanno fornito il substrato hardware. Il testo è stato raccolto collaborativamente su Google Drive e la postproduzione è stata effettuata su Sigil. Foto e materiali vari sono stati condivisi attraverso Dropbox. Lucio Bragagnolo, Stefano Garavaglia Dicembre 2012
  • 42. Protagonisti Ivan Botta Di pura razza piemontese, CEO di Enter, si occupa da sempre di In- ternet Service Providing. Sull'isola deserta, porterebbe un Mondrian e il suo cavallo. < back @ivanbotta
  • 43. Mariano Cunietti Responsabile Tecnico in Enter, già sistemista Linux, chitarrista clas- sico, tennis wannabe, ambizioso sempre più del giusto, soddisfatto mai. < back @mcunietti Giuseppe Civitella Sistemista, si occupa di sistemi Gnu/Linux, virtualizzazione e cloud computing. Da grande metterà la testa a posto aprendo il birrificio dei suoi sogni. < back @gcivitella 43/51
  • 44. Autori Lucio Bragagnolo Ha iniziato a scrivere sulla gomma. Oggi lo fa anche su vetro, dis- truggendo intanto numerose tastiere in plastica. @loox
  • 45. Stefano Garavaglia 29 anni, è Digital PR manager di Enter e blog- ger di Enter the cloud. Sport praticati: reggae, rum e ottimismo. Non ricorda i nomi di nessuno. @enter_the_cloud 45/51
  • 46. Note La rete si fa software Big Switch Network si autodefinisce leader nell’open Software Defined Networking (SDN). Una architettura di rete Open SDN im- piega un protocollo software standard industriale che che astrae il piano dei dati sulla rete dal piano di controllo e rende così indi- rizzabile e programmabile da software esterno la struttura di rete sottostante. Per Big Switch, presso la quale lavorano alcuni membri del team che ha progettato inizialmente il protocollo OpenFlow presso la Stanford University, il networking definito via software rappresenta il movimento più rivoluzionario negli ultimi vent’anni di sviluppo del settore. A fine ottobre 2012 Big Switch ha ottenuto un secondo finanziamento di 25 milioni di dollari cui hanno con- tribuito, tra le altre, Goldman Sachs e Index Venture. < back Una visione concreta del virtuale Midokura vede un futuro di infrastruttura di rete più flessibile, per- sonalizzabile e adattabile per mezzo della virtualizzazione di rete e ha realizzato uno strato di software dedicato espressamente a questa funzione, MidoNet. Questa soluzione fornisce lo strato di software direttamente all’interno degli apparecchi fisici di rete, oggi poco effi- cienti e poco scalabili. Al contrario, attraverso l’implementazione di
  • 47. Midokura la macchina fisica diviene una piattaforma virtuale, scalabile anche verso centinaia di migliaia di porte. < back L’hosting con la acca maiuscola DreamHost è in attività da quindici anni, ere geologiche in questo settore dove ogni giorno germoglia una startup. Naturalmente era una startup anche la loro, quella di quattro studenti di Computer Science al college californiano Harvey Mudd di Claremont. Capitale di partenza: un server web con processore Pentium 100 e banda condivisa su una linea T1 concessa gratuitamente da un amico. Oggi i server sono 1.500 con un milione di dominî amministrati. DreamHost ama ricordare in particolare il mezzo milione abbond- ante di blog e siti basati su piattaforma Wordpress e ospitati sulla loro piattaforma. L’abuso di acqua di colonia a DreamHost è passibile di licenziamento, sostiene il management, oppure – con maggiore aderenza alla realtà – causa di otto ore abbondanti di sfottò. < back La multinazionale di Openstack Mirantis ha sede in Mountain View, uno dei tipici non-luoghi della Silicon Valley, lo stesso di Google e Adobe. Sostiene ufficialmente di basare il proprio business sulla trasparenza: implementazioni cloud indipendenti dal vendor, senza compromessi rispetto ad agganci opachi o impacchettamenti proprietari. Chi cercasse il bacino più ampio di esperienza ingegneristica ri- guardante OpenStack, dovrebbe bussare alla porta di Mirantis, eventualmente quella delle sedi distaccate in Russia e Ucraina. Se avete bisogno di farvi amico Boris Renski, provate ad attaccare bottone con i modellini radiocontrollati di elicotteri. 47/51
  • 48. < back Massimo rendimento, minimo sforzo Scalr fa grandi cose con una piccola struttura, che al momento misura diciassette persone, ed è guidata da un amministratore che ha in testa il pensiero fisso di massimizzare e minimizzare quanto umanamente possibile. Nel coltivare sogni di grandezza futura come ogni startup che si rispetti, Scalr riesce nell’impresa di avere un flusso di cassa positivo grazie al servizio Scalr.net. La loro pagina About Us sembra l’annuario del liceo e non per l’im- postazione grafica. < back Uno che sa presentarsi (e presentare) Sebastian Stadil prosegue la tradizione di imprenditori e business- man francesi che hanno varcato l’oceano Atlantico e si sono accasati professionalmente in riva al Pacifico, nonostante l’offerta transalpina di buoni formaggi sia infinitamente superiore a quella californiana. A portare avanti il sogno inseguito da nomi prestigiosi del passato recente come Jean-Louis Gassée (ex Apple) e Philippe Kahn (fond- atore di Borland) ha iniziato da giovanissimo, al termine del suo corso di studi presso la Scuola superiore di Commercio di Lille. Scalr non è la sua prima impresa; è stato precedentemente coinvolto in Cloud In Code, Intalio e Swophit. < back Un altro che non le scala prima di mandarle a dire 48/51
  • 49. Randy Bias non è esattamente un ragazzino perché bazzica l’Inform- ation Technology dagli anni novanta; un aneddoto apocrifo narra che la sua prima frase pronunciata da piccolissimo sia stata twenty- four/seven. Randy si attribuisce il merito del primo framework al mondo per la gestione di cloud multipli e cloud multipiattaforma. The Next Web lo ha considerato nel 2011 uno dei primi venticinque personaggi in- fluenti che twittano in materia di cloud. Riconoscimento un po’ ba- rocco, certamente non facile da ottenere. Non fategli notare che nella classifica è “solo” quindicesimo. < back Quando nasce una stella Eric Windisch è l’attuale Systems Engineer di Cloudscaling e, nono- stante la giovanissima età, ha già 10 anni di esperienza nel campo della virtualizzazione e della billing automation. È fondatore dell’hosting provider GrokThis.net. Attento utilizzatore di Open- stack fin dalla prima release, Austin, è parte attiva del progetto dal rilascio di Cactus. < back Il progetto che compete con Openstack Questo l’annuncio che il 26 novembre abbiamo letto sul blog di Apache: “The Apache CloudStack project is pleased to announce the 4.0.0-incubating release of the CloudStack Infrastructure-as-a-Ser- vice (IaaS) cloud orchestration platform.” In principio, Citrix sembrava aver deciso di portare avanti un fork particolare di Openstack. Poi ha cambiato rotta. Dall'acquisizione di Cloud.com da parte di Citrix nel 2011, la com- munity open source CloudStack.org ha visto moltiplicarsi il coinvol- gimento degli utenti. 49/51
  • 50. Citrix ha inoltre presentato Citrix Cloud Community Program, che introduce un set di prodotti e servizi Citrix Ready verificati per l'integrazione con le soluzioni cloud di Citrix. Anche in questo caso, si inizia a parlare di un “ecosistema” di servizi cloud; anche in questo caso, si parla di cloud open source. < back Il fattore Y Y Combinator ha messo a punto nel 2005 un nuovo modello di fin- anziamento delle startup, articolato in due fasi annuali di investi- mento a pioggia, su un gran numero di nuove nate (nell’ordine delle decine) per piccoli importi, con una media di 18 mila dollari. Le startup si trasferiscono in Silicon Valley per tre mesi, durante i quali vengono curate e messe in perfetta forma e immagine per il Demo Day, nel quale ciascuna startup si presenta a una platea di invest- itori “veri”. Le aziende finanziate da Y Combinator sono finora più di 460, tra le quali AeroFS, Airbnb, Cloudkick, Disqus, Dropbox, Justin.tv, Red- dit, Scribd, Songkick, Stripe, Weebly e ZumoDrive. < back 50/51
  • 51. @Created by PDF to ePub